Donald Trump, dopo la firma alla Casa Bianca degli Accordi di Abramo, cioè le intese che normalizzano i rapporti tra Israele, Emirati e Bahrein: “Dopo decenni di divisioni e conflitti, celebriamo l’alba di un nuovo Medio Oriente“, twitta. Joe Biden plaude ai “passi avanti”, ma si ricorda dei palestinesi: “E’ bene vedere altri Paesi in Medio Oriente – dopo Egitto e Giordania, ndr – riconoscere Israele e accoglierlo come partner”, dice, impegnandosi, quando e se sarà presidente, “a lavorerà per progredire verso una soluzione a due Stati e una regione più stabile e sicura”.
“Una nuova alba di pace, superiamo le divisioni e ascoltiamo il battito della storia”, fa eco a Trump il premier israeliano Benyamin Netanyahu, che ha siglato le intese con i ministri degli Esteri dei due Paesi arabi, Abdullah bin Zayed Al Nahyan e Khalid bin Ahmed bin Mohammed Al Khalifa. Ma non si era ancora asciugato l’inchiostro delle firme che da Gaza partivano i primi razzi contro Israele: 13 in tutto (otto intercettati dall’Iron Dome, due i feriti leggeri). La popolazione del Sud d’Israele ha visto nei rifugi quella che doveva essere “l’alba d’un nuovo Medio Oriente”.
L’Iran sciita, che si sente isolato e minacciato dalla normalizzazione dei sunniti con Israele, prende di petto Emirati e Bahrein: “Come avete potuto tendere la mano a Israele? E volete anche dargli delle basi nella regione?”, chiede il presidente Hassan Rohani, mettendo sotto accusa quegli Stati i cui “dirigenti non capiscono nulla di religione e ignorano il debito verso la nazione palestinese”. L’Arabia saudita – nemico numero 1 di Teheran nella regione e partecipe dell’intreccio di alleanze degli Usa e di Israele – resta prudente: è dalla parte del popolo palestinese e sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una soluzione giusta e globale della questione palestinese.
Poco prima della firma a Washington degli Accordi di Abramo il presidente palestinese Abu Mazen aveva denunciato da Ramallah che “non ci sarà pace, sicurezza o stabilità nella regione senza la fine dell’occupazione e il raggiungimento per il popolo palestinese dei suoi pieni diritti, come stabilito dalle legittime risoluzioni internazionali”. Le intese suggellate alla Casa Bianca “non permetteranno di raggiungere la pace” finché Usa Israele “non riconosceranno il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente”. Le manifestazioni indette in Cisgiordania per protestare contro gli Accordi di Abramo sono però andate quasi deserte: c’è stanchezza e rassegnazione.
Hanno valenze molto diverse, a seconda di da dove le si guarda e in che ottica le si giudica, le intese raggiunte nelle ultime settimane in Medio Oriente, nel quadro del piano di pace messo a punto e presentato dall’Amministrazione Trump, il cui architetto è stato il ‘primo genero’ Jared Kushner, finanziere ebreo, marito della ‘prima figlia’ del magnate presidente, Ivanka, consigliere del suocero e ora pure manager della sua campagna elettorale. Medio Oriente più sicuro? A me, pare sempre una polveriera di frustrazione e risentimento.
Due punti appaiono chiari. Primo, gli accordi fanno avanzare l’agenda elettorale di Trump in Usa, anche se non paiono avere commosso l’opinione pubblica e tanto meno avere spostato preferenze (nei sondaggi), a parte guadagnare al magnate qualche estemporanea quasi folcloristica candidatura al Nobel per la Pace, destinata probabilmente a restare lettera morta – quando poi la candidatura arriva da Eduardo Bolsonaro, il figlio del presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro, è difficile che a Oslo la si prenda sul serio -. Secondo, non fanno avanzare la causa dei palestinesi, sfiduciati e divisi tra Ramallah e Gaza, senza interlocutori in Israele e ridotti a fattore della lotta per l’egemonia nella regione tra l’Iran e l’Arabia saudita, appesi agli aiuti del Qatar e della comunità internazionale.
Le scelte mediorientali e mediterranee dell’Amministrazione Trump
Con il piano di pace e con le intese che ne sono corollari, Trump, fidando sul lavorio di Kushner e del segretario di Stato Mike Pompeo, che non sarà un fine diplomatico, ma è un fedele esecutore, porta avanti la sua politica mediorientale e mediterranea, nel segno del disimpegno e del ‘dalli all’Iran’.
Il disimpegno di Washington è militare, là dove il magnate non percepisce interessi vitali americani: di qui, l’accelerazione del ritiro da Afghanistan e da Iraq, oltre che dalla Siria, dove in quattro anni la sua presenza s’è risolta in due scariche di missili senza seguito politico e senza rilevanza militare e nel cinico abbandono degli alleati curdi alla mercé dei turchi; ed è diplomatico in Libia e in genere nel Nord Africa, dove l’Egitto del generale golpista al Sisi si sente comunque autorizzato a condurre la sua repressione delle opposizioni islamiste.
E’ adamantina l’alleanza con Israele, anzi con Netanyahu: Trump gli ha pure offerto il trasferimento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. E solida per concordanza di interessi e convenienze l’alleanza, politica e d’affari, con l’Arabia saudita, dove il magnate compì la sua prima missione all’estero e che gli comprò, come gesto d’amicizia, armi per oltre cento miliardi di dollari. L’asse tra Riad e Washington induce il presidente a fare comunella con il principe ereditario Mohammad bin Salman e a passare sopra le sue responsabilità nell’omicidio Khashoggi, nel segno dell’inimicizia verso l’Iran. Nei confronti di Teheran, Trump nutre una vera e propria ossessione: denuncia dell’accordo sul nucleare concluso nel 2015 e condiviso dagli alleati europei e da Russia e Cina, e reintroduzione, anzi inasprimento delle sanzioni; fino all’atto di guerra vero e proprio dell’uccisione a Baghdad con un drone del generale Qasim Soleimani, il capo dei Pasdaran.
Le ipocrisie della diplomazia
Gli Accordi di Abramo sono certamente storici, ma non sono di pace, perché Emirati e Bahrein non sono mai stati in guerra con Israele, diversamente da Egitto e Giordania. E neppure la cerimonia della firma è andata esente dalle esibizioni di bullismo cui Trump non riesce a rinunciare: centinaia di invitati con pochissime mascherine e senza distanziamento sociale.
I più soddisfatti del lotto erano proprio Trump e l’amico Netanyahu, che smette per un giorno d’essere braccato dalle polemiche sul processo per corruzione e sui ritardi del lockdown anti-pandemia. L’unico pegno che il premier israeliano paga è la sospensione, non la rinuncia, all’annessione della Cisgiordania.
Adesso, il magnate spera di prendere nella sua rete altri Paesi del Golfo, probabilmente l’Oman, più difficilmente l’Arabia Saudita: è convinto che alla fine anche i palestinesi “arriveranno a un punto in cui vorranno unirsi al processo di pace”, altrimenti “saranno lasciati da parte”. Il che a lui non pare un problema, anche se può essere fattore di insicurezza e terrorismo in tutta la Regione. Sull’Iran, ostenta sicumera: “Dopo il voto vorranno negoziare: farò con Teheran un grande accordo, migliore del precedente” – ma l’Iran, come la Cina e molti Paesi europei, guardano alle elezioni sperando che siano la fine di un incubo -.
Il nodo dell’assenza della Palestina
Su AffarInternazionali.it, l’assenza della Palestina dagli Accordi di Abramo è rilevata dall’analista Nello Del Gatto: “Nei trattati di Israele con gli Emirati e con il Bahrein, il conflitto palestinese viene nominato, mentre nella dichiarazione generale viene sottinteso quando si parla della necessità di mantenere la pace in Medio Oriente, di cercare il rispetto e la tolleranza verso ognuno con la fine del radicalismo e dei conflitti”.
Dalle dichiarazioni di molti analisti arabi contrari alle intese, “appare chiaro che proprio la Palestina sia l‘assenza più importante, tanto che il presidente palestinese Abu Mazen ha parlato di pugnalata alle spalle: “La leadership palestinese non autorizza nessuno a parlare per il popolo palestinese invece dell’Olp … il conflitto principale è tra Israele e il popolo palestinese che geme sotto l’occupazione … non ci sarà stabilità e sicurezza nella regione senza la fine dell’occupazione“.
Il piano di pace presentato da Trump a gennaio, che è stato respinto al mittente dalla Palestina e dagli amici che le sono rimasti, “prevede – scrive Del Gatto – la creazione di due Stati, ma quello palestinese sarebbe un’enclave in terra israeliana, senza confini se non quelli israeliani, di fatto senza sovranità, in cambio di infrastrutture e aiuti”.
Israele recupera posizioni in Medio Oriente, per questioni geopolitiche – in chiave anti-Iran – ed economiche. Ci riesce anche perché la leadership palestinese non ha saputo adeguare, nelle scelte e nelle persone, le giuste rivendicazioni di uno Stato e di diritti al mondo che cambia e abbandonare l’assistenzialismo.
L’allontanamento dei Paesi arabi dalla visione palestinese deriva anche da questo. Con il pericolo che incombe d’una maggiore radicalizzazione e di conseguenza d’un isolamento sempre maggiore. C’è l’Iran pronto a aumentare la sua influenza su Ramallah e Gaza; e c’è la Turchia. Ma questo non giova né ai rapporti di Ramallah con i Paesi del Golfo (a parte il Qatar, tutti impegnati contro l’Iran) né a quelli con Israele e Stati Uniti. Gli Accordi di Abramo, chimera o incubo?