Quando, a metà agosto, 400 donne afghane scrissero una lettera aperta ai capi talebani, in vista dell’avvio di negoziati di pace con il governo, sapevano bene che risposta rischiavano di ricevere: “Di solito, la loro risposta è la violenza”. E, infatti, il 25 agosto, Saba Sahar, 44 anni, attrice e regista afghana, ma anche attivista per i diritti umani e vice-capo delle forze speciali che s’occupano delle questioni di genere, viene ferita a colpi d’arma da fuoco a Kabul: un agguato, tre uomini armati sparano sulla sua auto, su cui ci sono pure due guardie del corpo, ferite, e l’autista e un bimbo, illesi.
Raggiunta allo stomaco da quattro proiettili, Sahar è sopravvissuta. Ma il messaggio era arrivato. Per le donne afghane, i negoziati tra governo e talebani, che devono aprirsi in queste ore a Doha, sono un passaggio delicato: rischiano di perdere quanto, in termini di istruzione e di partecipazione alla vita politica, economica, culturale, sportiva, hanno guadagnato in anni di conflitto, ma anche – per loro – di emancipazione.
Vi sono donne al governo e pure nella delegazione che tratterà con i talebani – cinque su 21 -; e donne in Parlamento (il 28% dei seggi, la legge garantisce loro una quota). Le donne rappresentano il 21,4% della forza lavoro afghana (nel 2010, erano appena il 15,3%, dati della Banca mondiale). Oltre tre milioni e mezzo di bambine e ragazze vanno a scuola, 100 mila giovani vanno all’Università.
La preoccupazione è che un’intesa tra governo e talebani segni per loro un passo indietro, malgrado le assicurazioni in senso contrario degli ‘studenti’. I sondaggi dicono che nove afghani su dieci sono favorevoli al diritto di voto alle donne, ma il dato suona ottimista.
Contestabile per molti versi, la presenza occidentale, come negli Anni Ottanta, in misura minore, quella sovietica, è stata una garanzia di tutela e di valorizzazione delle donne afghane, le cui percentuali di scolarizzazione crollano nei territori sotto il controllo dei talebani. Ma gli Stati Uniti di Donald Trump hanno, ora, un solo obiettivo: mettere formalmente fine alle ‘guerre senza fine’ e riportare a casa i ‘ragazzi’ dall’Iraq e dall’Afghanistan, il più presto possibile, il più possibile prima delle elezioni presidenziali, il 3 novembre.
Trump ha appena annunciato che in Afghanistan “in breve tempo” resteranno solo 4000 soldati Usa e che in Iraq entro fine settembre caleranno da 5200 a 3000.
Così, i negoziati tra governo e talebani sono incoraggiati e patrocinati dall’Amministrazione Trump – il segretario di Stato Mike Pompeo sarà presente – e sono il corollario dell’intesa raggiunta a fine febbraio tra Washington e i talebani. Ci sono voluti sei mesi per superare gli ostacoli e le resistenze, dall’una e dall’altra parte, espressi con uno stillicidio di attentati e scontri, in un Paese dove anche l’Isis e al Qaida fanno sentire la loro presenza.
E’ la volta buona, per l’inizio delle trattative più volte rinviato? Il portavoce dell’ufficio dei talebani in Qatar, fa sapere che “l’Emirato islamico dell’Afghanistan (così si autodefiniscono i talebani, ndr) è pronto a partecipare alla sessione di apertura del colloqui”: obiettivo, “fare avanzare i negoziati nel modo migliore e nel quadro dei valori islamici”, verso “la pace e un vero sistema islamico”. L’insistenza sui valori islamici e su un vero sistema islamico è motivo d’inquietudine per le donne.
Molti afghani vedono nelle trattative l’inizio della fine di 40 anni di guerra, l’occupazione sovietica, la presa del potere dei talebani, l’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati, un conflitto mai risolto. La presenza a Doha con Pompeo del numero due afghano Abdullah Abdullah e del ministro degli Esteri Hanif Atmar dà solennità alla cerimonia. Se nulla la farà saltare in extremis.