Il Lincoln Memorial è un tempio della democrazia americana, eretto in onore del massimo martire dell’abolizione della schiavitù negli Usa: sui suoi gradini, il 28 agosto 1963, Martin Luther King pronunciò, davanti a una marea di folla fino all’obelisco del Washington Memorial, il suo discorso più famoso, ‘I have a dream’. E, l’anno prima, la Guardia Nazionale mobilitata dai Kennedy (John, il presidente, e Robert, il ministro della Giustizia) fu determinante per consentire l’ingresso all’Università del Mississippi di James Meredith, il primo studente nero a varcarne la soglia.
Vedere, l’altra sera, una manifestazione pacifica di anti-razzisti, neri e bianchi insieme, sfilare davanti al Lincoln Memorial presidiato da reparti della Guardia Nazionale in assetto di guerra, mobilitati dal magnate presidente Donald Trump, è suonato doppio insulto: alla memoria di Lincoln e a quella di MLK. E così è stato percepito da decine di milioni di neri e di americani: un’immagine da Santiago del Cile 1973.
D’un colpo solo, Trump, che aveva già usurpato il Lincoln Memorial per un suo spot, un’intervista alla Fox News, ha cancellato la memoria e riscritto la storia. E il presidente, incurante di aizzare, con i suoi atteggiamenti, proteste e violenze, insiste: “New York chiami la Guardia Nazionale – twitta -. I farabutti e i perdenti vi stanno facendo a pezzi. Dovete agire in fretta! Non fate lo stesso tremendo e mortale errore che avete fatto con le case di riposo”, scrive, mischiando manifestazioni anti-razziste ed emergenza coronavirus e inserendosi nella polemica interna al partito democratico tra il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, incline a un giro di vite anti-disordini, e il sindaco della Grande Mela Bill de Blasio, più lassista.
Trump non si accontenta della Guardia Nazionale, una forza militare di riservisti operativa in tutti gli Stati dell’Unione, le cui origini risalgono ai tempi delle Colonie, prima, cioè, della Guerra d’Indipendenza, ma il cui atto di nascita legislativo è del 1903. Con unità di stanza in ogni Stato e pure nei Territori dell’Unione, la Guardia Nazionale risponde ai governatori, che sovente vi fanno ricorso per emergenze di protezione civile.
Molti presidenti – 18 su 44 – hanno servito nella Guardia Nazionale: l’ultimo fu George W. Bush, che s’arruolò nell’aeronautica per sottrarsi alla guerra del Vietnam.
Contro i manifestanti ulcerati dal brutale omicidio ad opera della polizia di George Floyd, un nero di Minneapolis di 46 anni, Trump vorrebbe persino schierare l’esercito, riesumando i poteri datigli da una legge del 1803, l’Insurrection Act.
Il Pentagono ha già spostato 1600 uomini nell’area del Distretto di Columbia, a cavallo del Potomac tra Maryland e Virginia, dove sorge Washington: le truppe sono pronte a fornire appoggio, se richieste dalle autorità locali, e sono ospitate in basi militari nell’area della capitale, ma non in città.
Il capo del Pentagono Mark Esper fa però sapere di non essere incline a invocare l’Insurrection Act contro le proteste, che la Casa Bianca etichetta come “terrorismo interno”. Esper vuole evitare che le forze amate siano strumentalizzate a fini politici; e rileva che non è stata la Guardia Nazionale, lunedì sera, a sparare lacrimogeni e proiettili di gomma per sgomberare manifestanti pacifici dall’area antistante la Casa Bianca, lasciando intendere che li hanno usati altre forze dell’ordine.
Con una mossa inconsueta, Esper prende le distanze da Trump pure per la criticatissima passeggiata di lunedì sera dalla Casa Bianca alla chiesa di St.John, al di là di Lafayette Square: obiettivo, dare al presidente l’opportunità di una foto sul sagrato con la Bibbia – la sceneggiata sarebbe stata pensata dalla prima figlia Ivanka e da suo marito Jarred Kushner, che erano accanto al presidente, con Esper e il segretario alla Giustizia William Barr. “Sapevo che andavamo a St.John, non sapevo della foto e della Bibbia”, dice ora il capo del Pentagono.
Com’era già avvenuto nell’estate 2017 con simboli confederati, dopo gli incidenti di Charlottesville, quest’ondata di proteste per i diritti civili sta facendo sparire dalle città americane simboli razzisti: così, a Filadelfia, la statua di bronzo dell’ex sindaco e capo della polizia Franck Rizzo, presa di mira dai manifestanti e danneggiata, è stata rimossa da davanti al Municipio. Capo della polizia e sindaco dal 1968 al 1980, l’italo-amercano Rizzo era un uomo ‘Law&Order’, ma attuò discriminazioni contro la gente di colore.
La notte tra martedì e mercoledì è stata ancora teatro di cortei e proteste in decine di città, sfidando coprifuoco e dispositivi di sicurezza, ma con livelli di violenza inferiori ai giorni precedenti. Contro gli atteggiamenti divisivi del presidente Trump, s’è schierato l’ex presidente repubblicano George W. Bush: “Per l’America è il momento di esaminare i suoi tragici fallimenti, … come quello che tanti afro-americani, soprattutto giovani, siano tormentati e minacciati nel loro Paese”, ha detto Bush, “addolorato” per la morte di Floyd. “L’unico modo per vedere noi stessi in una luce vera è ascoltare le voci di chi è ferito. Chi tenta di far tacere queste voci non capisce il vero significato dell’America o come può diventare un posto migliore … La giustizia ci sarà solo con mezzi pacifici. Ma sappiamo che la pace nelle nostre comunità richiede una giustizia senza disuguaglianze”.