‘Minnesota Burning’ è il facile titolo di molti media, negli Stati Uniti: titolo preso a prestito da uno dei più duri film contro il razzismo nel Sud dell’Unione, ‘Mississipi Burning’ (1988, Alan Parker regista, Gene Hackman e Willem Dafoe protagonisti). Ma nella scia della morte a Minneapolis di George Floyd, un nero il video della cui agonia ha indignato il Mondo intero, non brucia solo il Minnesota, ma tutta l’America: manifestazioni, cortei, proteste, violenza, arresti da New York alla California, e, nella notte tra venerdì e sabato, a Detroit, un morto ammazzato, un ragazzo di 19 anni.
Il fermento dilaga: potrebbe essere l’annuncio di un’altra ‘estate calda’ razziale, nella prospettiva del voto presidenziale del 2 novembre. A New York almeno 70 manifestanti sono stati arrestati dopo tafferugli a Manhattan. Anche a Denver in Colorado s’è sparato; e a Louisville, in Kentucky: lì, sette persone sono state ferite mentre commemoravano l’uccisione in marzo di un’afro-americana, Breonna Taylor, 26 anni, medico di pronto soccorso, durante una perquisizione nella sua casa compiuta da tre agenti bianchi. A Oakland, in California, un agente è stato ucciso e uno ferito: c’erano almeno 7.000 persone in strada.
E la memoria va ad altre estati violente americane, a Ferguson Missouri 2014, quando lo slogan #Blacklivesmatter, ‘le vite dei neri contano’ risuonò dopo l’uccisione di Michael Brown, vittima d’un poliziotto bianco. L’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu, Michelle Bachelet, lancia un forte monito all’Amministrazione Trump: basta “omicidi” di afro-americani per mano di agenti di polizia violenti e venati di razzismo, bisogna agire per fermare i ‘suprematisti’ in divisa.
La Casa Bianca getta olio sul fuoco: dopo essersi detto “turbato” dal video del decesso di Floyd, con il poliziotto che l’ha arrestato e fatto stendere a terra che gli tiene il ginocchio premuto sul collo per nove minuti, avere telefonato ai suoi familiari e promesso giustizia, Donald Trump cambia registro quando in tv vede incendi e saccheggi e scene da guerriglia urbana: “Non posso star a guardare quel che succede in una grande città americana … Una totale mancanza di leadership. O il debolissimo sindaco d’estrema sinistra Jacob Frey si dà una mossa o mando la Guardia Nazionale a fare il lavoro che serve … questi TEPPISTI stanno disonorando il ricordo di George Floyd e io non lo permetterò … Se ci sono difficoltà, assumeremo il controllo, ma quando parte il saccheggio, s’inizia a sparare. Grazie!”.
“Questo tweet viola le regole di Twitter sull’esaltazione della violenza – scrive il social network sulla pagina di Trump -. Ma Twitter ha stabilito che è nell’interesse pubblico che resti accessibile”. E quando la Casa Bianca rilancia il tweet presidenziale, Twitter lo etichetta allo stesso modo.
La questione entra, inevitabilmente, nella campagna elettorale. Il candidato democratico Joe Biden è “furioso” per il tweet del magnate su Minneapolis. “Ne ho abbastanza… Il presidente fa appello alla violenza contro cittadini americani in un momento di grande dolore per molti”, twitta. “Sono furioso, e dovreste esserlo anche voi”. “Tutto ciò non dovrebbe essere normale nell’America 2020”, dice a sua volta Barack Obama, auspicando che nel Paese si possa creare un “una nuova normalità”, dove “intolleranza e trattamento diseguale tra cittadini non infettino più le nostre istituzioni e i nostri cuori”. Neri celebri, della cultura, dello spettacolo, dello sport, si mobilitano: la popstar Taylor Swift dice a Trump “Ti manderemo a casa a novembre”, la tennista Coci Gauff posta: “Sono io il prossimo?”.
Trump si consulta con i responsabili della Sicurezza nazionale e dà ordine all’Esercito di tenere unità di polizia militare pronte a essere impiegate a Minneapolis, dopo la quarta notte ‘calda’. L’impiego dei militari segnerebbe un’escalation eccezionale nelle risposta delle autorità federali alle tensioni razziali: il New York Times ne ricorda l’utilizzo nel 1992, quando il verdetto d’assoluzione dei quattro poliziotti che avevano pestato Rodney King scatenò proteste in California e in tutta l’Unione e innescò la ‘rivolta di Los Angeles’, che fece una cinquantina di vittime.
La situazione a Minneapolis rischia di finire fuori controllo: c’è già stato l’intervento della Guardia Nazionale, 500 uomini schierati per evitare il peggio. “E’ il weekend più difficile della nostra storia, il mondo ci sta guardando”, ammonisce il governatore dello Stato Tim Walz: “Capisco la vostra rabbia, ma andate a casa”. Per placare gli animi, Derek Chauvin, divenuto l’‘agente killer’, quello che nel video preme sul collo di una persona inerme che implora di non riuscire a respirare, è stato arrestato – con i tre suoi colleghi, era stato già licenziato -. Ora è sotto indagine dell’Fbi, ma nei suoi confronti non sono stati ancora emessi capi di accusa, anche perché l’autopsia ha escluso che la morte di Floyd sia stata causata da asfissia e/o strangolamento: una conclusione che ha innescato ulteriori fermenti, mentre la famiglia di George chiede un secondo parere ‘indipendente’.
‘Big Floyd’, come lo chiamavano affettuosamente quanti lo conosceva, 46 anni, era un colosso, alto quasi due metri, un “gigante gentile”, ricorda il proprietario del ristorante dove da cinque anni lavorava come buttafuori. Ma il Conga Latin Bistro da due mesi è chiuso causa pandemia; e lui era alla ricerca di un nuovo lavoro.
Chauvin, il poliziotto, 44 anni, da 19 nelle forze dell’ordine, sarebbe stato coinvolto in sparatorie e avrebbe collezionato lamentele per uso eccessivo della forza e violazione delle regolari procedure. Pare che lui e George si conoscessero. Dopo questa vicenda, la moglie lo ha lasciato.
Nel caos di Minneapolis, finisce in manette anche una troupe della Cnn che stava trasmettendo live. A raccontare in diretta il suo arresto Omar Jimenez, un producer afro-americano, che si era chiaramente identificato come giornalista, dicendo agli agenti che lui e la sua troupe, se necessario, potevano spostarsi là dove fosse stato loro indicato. Un agente ha preso Jimenez per un braccio e l’ha ammanettato. Il producer e i suoi colleghi Bill Kirkos e Leonel Mendez sono stati rilasciati poco dopo, il governatore Walz ha detto “non avrebbe mai dovuto accadere”, la Cnn ha denunciato “una violazione del primo emendamento” della Costituzione americana, quello sulla libertà d’espressione.