Dio li fa e poi li accoppia. E, qualche volta, li mette insieme tre alla volta. Prendete Donald Trump (Usa), Boris Johnson (Gbr) e Jair Messias Bolsonaro (Brasile): tre leader conservatori – Trump e Bolsonaro magari anche un po’ razzisti e reazionari -, decisionisti, anti-establishment – anche se Johnson ne è un prodotto -, tutti e tre ‘negazionisti’ all’inizio della pandemia.
Trump e Bolsonaro pensavano che la cosa non li toccasse, né loro né i loro Paesi, anche se il seguito del brasiliano portò il contagio alla Casa Bianca, in occasione della sua visita. Johnson, che aveva morti e contagi più vicini, perché l’Europa ne era già invasa, seguì la pista dell’immunità di gregge, prima di convertirsi – davanti alla strage che si profilava – alle misure di confinamento e d’ammalarsi, e di brutto, lui stesso.
Con riluttanza, Trump e Bolsonaro hanno poi dovuto convertirsi, meno a fondo di altri, al blocco delle attività, alla distanza fra le persone, alle quarantene; ed entrambi ora scalpitano per rimettere in moto i loro Paesi. Fra i due, c’è però una differenza: quando il coronavirus è arrivato negli Usa, Trump era appena uscito assolto da una procedura di impeachment; Bolsonaro, invece, potrebbe dovere affrontare una procedura di impeachment quando la pandemia lascerà il Brasile o sarà comunque meno virulenta.
Intanto, il suo Paese è in corsa per un posto sul podio della pandemia, almeno nel periodo a cavallo tra aprile e maggio: in questa fase, il Brasile è quarto al mondo per numero di casi, con almeno 60 mila nuovi casi confermati, dietro Usa, Russia e Gran Bretagna. In totale, il numero delle vittime supera le 7.500, i contagi accertati sono oltre 100 mila, il tasso di mortalità è vicino al 7%. Tutti dati sottostimati: deceduti e contagiati potrebbero essere molti di più.
A sentirlo parlare e a vederlo in azione, l’ex militare divenuto presidente, omofobo e negazionista anche del cambiamento climatico, pare un clone di Trump: più rozzo, però, e più violento, meno preoccupato di non apparire quello che è. Il problema non è mai quello che lui fa o dice, ma sempre come lo riferisce la stampa. Mercoledì, parlando ai giornalisti davanti al Palacio da Alvorada, sua residenza ufficiale, il capo dello Stato brasiliano ha accusato il quotidiano Folha de Sao Paulo, forse il più prestigioso del Paese, di divulgare “menzogne”.
Per Bolsonaro è “falsa” la notizia, pubblicata dal giornale, secondo cui il capo della polizia federale di Rio de Janeiro, Carlos Henrique Oliveira, che indagava su presunti illeciti commessi dai due figli del presidente, sarebbe stato rimosso immediatamente dopo la nomina del nuovo direttore generale della polizia federale, Rolando Alexandre de Souza. Bolsonaro dice: “Oliveira è stato promosso, sarà direttore esecutivo della polizia federale a Brasilia”; quindi, non indagherà più sui suoi figli.
E poi c’è l’ossessione della ripartenza: se l’economia non si rimette in moto, “i problemi saranno serissimi” in Brasile, avverte Bolsonaro – e su questo non ha torto -. Quel che sta impedendo “saccheggi e violenza” sono i cosiddetti ‘corona-voucher’, i sussidi base di 600 reais (circa 120 dollari) distribuiti ai lavoratori autonomi e ‘informali’ – noi diremmo in nero -, i più danneggiati dalla sospensione delle attività. Ma i voucher dureranno solo altri due mesi: entro quella scadenza, bisognerà riattivare l’economia, perché la disoccupazione è salita a un “livello insostenibile”.
Le contraddizioni, la Cina e storie di straordinario dolore
E’ zeppa di contraddizionel, la cronaca della pandemia in Brasile. Bolsonaro vuole riaprire e caccia il ministro della Sanità Luis Henrique Mandetta favorevole al distanziamento sociale anti-contagio. Ma il suo successore Nelson Teich deve ammettere che la situazione in Brasile “sta peggiorando” e che “la curva dei contagi continua a crescere”, soprattutto a San Paolo, Rio de Janeiro, Manaus e Recife.
Come altrove nel Mondo, in Italia, Germania, Stati Uniti, il Brasile è un patchwork di misure, diverse da Stato a Stato: a San Paolo, la megalopoli più colpita, un decreto del governatore prevede fino a un anno di reclusione e una multa di valore equivalente a 40/45 mila euro per chi non porterà la mascherina nei locali pubblici; e Joao Doria commina pure sanzioni che vanno da una multa fino alla chiusura a tempo indeterminato per i titolari dei locali pubblici che non facciano rispettare l’obbligo di mascherina.
E nello Stato di Maranhao, nel Nord-Est del Brasile, è stato decretato un isolamento praticamente totale della capitale, Sao Luis: i veicoli privati non possono transitare nelle vie principali della città o della sua area metropolitana, i cui residenti possono uscire di casa solo per comprare medicine, cibo o andare in ospedale. Il sistema sanitario locale e regionale è “vicino al collasso”, avverte Flavio Dino, il governatore. “Credo che i cittadini accetteranno e collaboreranno, ma avremo l’appoggio dell’apparato coercitivo con le forze di polizia e le guardie municipali”.
Altri Stati del Nord-Est, come Cearà e Pernambuco, oltre a Parà, nella regione amazzonica, stanno valutando se applicare regole rigide come quelle di Maranhao.
Ma i media continuano a raccontare storie di straordinario dolore, di famiglie distrutte, di un tasso di letalità superiore a quello registrato in altri Paesi e di vittime anche relativamente giovani, rispetto all’età media dei decessi in Europa e in America. Così, in pochi giorni, la famiglia Nunes, di Sao Joao de Meriti, nell’hinterland di Rio de Janeiro, ha perso la madre, Solange, ufficialmente morta d’infarto, e due figli, di 45 e 35 anni, cui era stato diagnosticato il coronavirus: Paulo Ricardo lavorava in un super-mercato, William era tecnico informatico. Il padre racconta che non avevano patologie pregresse.
Se c’è una cosa che differenzia il Brasile di Bolsonaro dagli Stati Uniti di Trump, è l’atteggiamento verso la Cina: a Washington, la si addita al Mondo come l’untrice della pandemia o, almeno, come responsabile della diffusione del coronavirus per la reticenza a denunciarne la pericolosità all’inizio. Invece, in Brasile, a parlarne male, si rischia di perdere il posto e la libertà. Chiedere, per conferma, al ministro dell’Istruzione Abraham Weintraub, finito sotto inchiesta per razzismo per avere scritto un post anti-cinese – poi rimosso -: Weintraub insinuava che la Cina avrebbe provocato la pandemia per “dominare il mondo” e aveva scritto le ‘l’ al posto delle ‘r’, scimmiottando la pronuncia cinese. L’indagine della polizia federale è in corso, l’ambasciata cinese vuole scuse formali.
Presagi di impeachment
Su AffarInternazionali.it, Carmine de Vito, analista di geo-politica sudamericana, osserva che l’impatto della pandemia in America Latina è inferiore rispetto ad altre aree continentali, ma è “complesso e non omogeneo come la cartina politica dell’area”, dove “le differenze politiche impediscono qualsiasi politica comune di contrasto al contagio e/o di sostegno alle popolazioni”, con sostanzialmente due blocchi e due impostazioni totalmente contrapposte: da una parte, Cuba, Venezuela e oggi Argentina; dall’altra, Brasile, Colombia e Cile.
“Lo spazio geografico e socio-politico della regione latino-americana – osserva de Vito – presenta elementi peculiari: grandi spazi con una bassa densità abitativa e grandi concentrazioni urbane, megalopoli corredate da sobborghi (favelas in Brasile, encinos in Venezuela, villas e asentamientos in Argentina) in precarie condizioni igieniche. Qui, le misure di isolamento rischiano di rivelarsi una forma di una costrizione sociale …. Altro elemento è la presenza di un’economia ‘informale’, ‘di strada’, che rappresenta il 40% della ricchezza complessiva”.
Quando il presidente Bolsonaro parlava di gripezinha (un’influenza di poco conto), con allusioni sue tipiche machiste e misogine, puntava a tenere viva l’economia brasiliana e contenere il disagio dei lavoratori ‘informali’, che vivono alla giornata potrebbero causare derive violente e disordini. Bolsonaro, osserva de Vito, si muove “con quel mix di cinismo e paternalismo che ha sempre rappresentato il suo tratto distintivo, soprattutto il suo successo, usando un forte lessico ‘popolare’ sulla presunta superiorità biologica degli anticorpi brasiliani, con l’obiettivo di recuperare tempo e utilizzare la crisi per occupare altri spazi di nomenclatura brasiliana”.
Ma nella destra è in atto un duro scontro, da cui non è detto che il presidente, dopo le dimissioni del ministro della Giustizia Sergio Moro, e le polemiche che ne sono derivate, esca vincitore. Tanto più che la polarizzazione in Brasile è sempre più radicale. Gli Stati del Nord conservano un importante consenso emozionale ‘lulista’, di sinistra, mentre il ricco sud conservatore e il blocco di interessi che aveva investito sull’ex capitano riservista divenuto presidente sembra giunto alla resa dei conti.
Che, passata la pandemia, potrebbe tradursi in un procedimento di impeachment. Che, in Brasile, ha già dimostrato di essere la via maestra per ‘fare fuori’ un presidente.