E’ un ring senza corde, quello dell’economia mondiale 2020, su cui rifugiarsi e dove cercare l’energia per un rimbalzo. Se nel 2008/’09, la Cina garantiva con la sua crescita una sponda all’America e all’Europa; e se nel 2011/’12 il ‘double dip’ europeo poteva poggiarsi sempre sulla Cina e su un’America già avviata sulla via della ripresa; questa volta, nel quadrilatero dell’economia mondiale, stanno male tutti insieme contemporaneamente, Usa, Ue, Cina ed Estremo Oriente (Giappone e Sud Corea).
L’emergenza coronavirus ha frenato per prima la crescita cinese, ma ha colto l’economia europea sull’orlo di una fase di stagnazione – nulla di nuovo: da decenni, l’Europa non procede spedita – e quella di americana forse all’esaurimento di una lunga crescita che ha attraverso il doppio mandato di Barack Obama e i primi tre anni di Donald Trump.
Al netto della statura magari non eccelsa di alcuni attuali protagonisti, Jerome Powell alla Fed e Christine Lagarde alla Bce, e di qualche loro impaccio lessicale, questo contribuisce a spiegare perché gli interventi sui mercati non sortiscano effetti palpabili. Anzi, ieri Wall Street ha vissuto una giornata fortemente negativa, nonostante domenica sera la Fed avesse abbassato d’un punto “quasi a zero” i tassi e promesso d’iniettare nell’economia 700 miliardi di dollari per evitare il diffondersi del panico fra gli investitori – misure che per la portata ricordano quelle del 2008 per contrare quella che allora era una crisi finanziaria -.
Più degli annunci di Powell, sollecitati dalle virulente pressioni della Casa Bianca, dove Trump cerca un capro espiatorio per i suoi errori di sottovalutazione dell’emergenza coronavirus, e molto più delle timide mosse europee, hanno potuto i bollettini cinesi delle vendite al dettaglio, dell’attività manifatturiera e degli investimenti: i dati del primo bimestre 2020 sono ben peggiori delle previsioni.
Se non danno credito a Fed e Bce, non c’è da attendersi che investitori e imprenditori ne diano molto di più alle dichiarazioni del G7, riunitosi ieri in formazione telematica: quasi inevitabile definire l’emergenza coronavirus una “tragedia mondiale dell’umanità e una crisi sanitaria globale”; e quasi scontato l’impegno a fare “tutto ciò che è necessario, utilizzando tutti gli strumenti politici”, per garantire la crescita delle economie dei Sette Grandi.
Il primo passo – su questo punto, c’è una certa concordia, con incertezze statunitensi e britanniche – è fare fronte all’emergenza sanitaria: l’Italia, qui, sta facendo da battistrada in Europa, perché Francia, Spagna, Germania e vari altri Paesi imboccano, più o meno riluttanti, la via dell’isolamento e dell’auto-confinamento.
Il fatto è che neppure i leader dei Paesi del G7 o della Cina, che pare comunque un passo avanti, hanno la minima idea di come l’emergenza evolverà e, soprattutto, di come e quando finirà: se bisognerà attendere la scoperta di un vaccino e/o di una terapia o se le strategie di contenimento funzioneranno. Turismo e trasporti sono i settori più colpiti, ma ne soffriranno inevitabilmente pure consumi e produzione industriale.
Domenico Conti sull’ANSA segnala “lo spettro di una crisi finanziaria anche peggiore del 2008”, foriera “non di una recessione, ma di una depressione globale”. Le banche centrali hanno le armi spuntate e non le usano al meglio; e le Borse escono da mesi di record spesso pompati: “Un castello di carte che per crollare aspettava solo un innesco, fornitogli dal coronavirus in un 2020 che già si presentava pieno di pericoli economici”. E il debito globale, pubblico e privato, stellare, ostacola l’utilizzo dello stimolo di bilancio.
A richiamare alla mente quanto avvenuto oltre 10 anni fa sono le ‘swap lines’ della Fed, che danno liquidità in dollari a termini ancor più favorevoli di allora anche fuori dagli Usa – c’è un accordo con le banche centrali di Eurozona, Gran Bretagna, Giappone, Svizzera -. C’è un ‘cash crunch’, un’insufficienza di liquidità in dollari, di dimensioni globali; e molte imprese potrebbero essere spazzate via.
Le incognite economiche sono fattori importanti d’instabilità politica: generano preoccupazione e insoddisfazione nell’opinione pubblica, che alla prima occasione tende a prendersela con chi governa. Così, negli Stati Uniti, la partita della presidenza, che sembrava chiusa prima d’iniziare, s’è improvvisamente riaperta: Trump ha capito, con qualche ritardo, che il coronavirus gli può risultare elettoralmente fatale: arrivare al 3 novembre, il giorno delle presidenziali, con l’Orso che balla a Wall Street gli impedirebbe di giocarsi la sua carta migliore, quella dell’America di nuovo grande, se ad abbatterla basta un virus.