Gli Stati Uniti hanno condotto una ritorsione contro basi di miliziani in Iraq appoggiati dall’Iran, dopo che un attacco dei miliziani contro la base di Taji a nord di Baghdad aveva ucciso mercoledì due militari americani e una soldatessa britannica. I bombardamenti aerei dell’altra notte, compiuti con il concorso britannico, hanno preso di mira depositi d’armi dove sarebbero stati immagazzinati missili del tipo dii quelli usati nell’attacco letale di mercoledì.
Secondo fonti di stampa irachena, le cui informazioni è stato impossibile verificare, i raid americani contro cinque o sei postazioni delle milizie filo-iraniane in Iraq hanno fatto sei vittime: tre militari, due poliziotti e un civile, un operaio dell’aeroporto della città santa sciita di Karbala. Le fonti Usa non sono state in grado di fornire un bilancio delle vittime.
Il Ministero degli Esteri iracheni ha convocato gli ambasciatori statunitense e britannico a Baghdad, per protestare contro gli attacchi della scorsa notte, nelle regioni centro-meridionali di Karbala, Babel e Wasit. L’attacco di mercoledì e la ritorsione dell’altra notte fanno di nuovo schizzare in alto la tensione nella Regione, che pareva essersi stemperata dopo l’escalation di inizio gennaio: l’uccisione a Baghdad del generale iraliano Qasim Soleimani, con un drone americano; e la replica di Teheran, quasi indolore sul piano militare, ma che provocò l’abbattimento di un aereo di linea ucraino con 166 persone a bordo.
A questo punto, non è chiaro se il presidente Donald Trump utilizzi l’Iraq come palestra per mettere alla prova l’Iran e i rialzi di tensione con Teheran come ‘arma di distrazione’ rispetto ai problemi dell’Unione, dall’emergenza coronavirus al colpo di freno dell’economia; o se sia piuttosto Teheran a dargliene il pretesto, con le sue provocazioni.
Poco prima dei raid, il ministro della Difesa americano, Mark Esper, aveva chiaramente ricordato che gli Stati Uniti “non tollerano attacchi contro la nostra gente, i nostri interessi ed i nostri alleati”. Il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, Abbas Moussavi, ha replicato: “Invece di condurre azioni pericolose e di lanciare accuse senza fondamento”, il presidente Trump “dovrebbe riconsiderare la presenza e il comportamento delle sue truppe nella Regione”.
L’attacco di mercoledì contro la base di Taji era stato condannato anche dalla Gran Bretagna e dall’Unione europea, tutti dimentichi che, dopo l’uccisione di Soleimani, il parlamento iracheno aveva chiesto che le truppe occidentali lasciassero il Paese.
L’attacco alla base di Taji era il 22° contro interessi americani in Iraq da fine ottobre: a rivendicarlo, le Falangi di Hezbollah, che avevano sparato una decina di razzi. Oltre a basi con militari americani sono state prese di mira, negli ultimi cinque mesi, anche la Zona Verde di Baghdad e l’ambasciata degli Stati Uniti che vi si trova. Gli attacchi non sono sempre stati rivendicati, ma Washington ne considera responsabili milizie sciite irachene con varie denominazioni, ma tutte legate all’Iran.
Il Pentagono ha definito la ritorsione americana “proporzionata e mirata contro la minaccia posta dai gruppi armati filo-iraniani che continuano ad attaccare basi che ospitano forze della coalizione”. “Questo gruppi terroristici – aggiunge il Pentagono – devono smettere i loro attacchi contro le forze americane e della coalizione; altrimenti, dovranno subirne le conseguenze”.
Il governo di Londra ha approvato “senza riserve” la rappresaglia. “La risposta all’attacco codardo contro le forze della coalizione in Iraq – ha detto il ministro degli Esteri Dominic Raab – è stata rapida, decisa e proporzionata”. Il capo del Foreign Office ha poi ribadito che la presenza residua britannica in Iraq non è ora in discussione: “Siamo in Iraq con le forze della coalizione per aiutare quel Paese a combattere le attività terroristiche”. Che il parlamento di Baghdad non la pensi così è evidentemente irrilevante.