Che la pace non sarebbe scoppiata da un giorno all’altro, dopo la firma dell’accordo di pace tra Usa e talebani, era scontato. Ma la settimana trascorsa dall’intesa di Doha di sabato 29 febbraio ha visto concretizzarsi tutti i fantasmi del peggiore scenario: attacchi di insorti e terroristi, a vario titolo dissidenti, con decine di vittime; il presidente Ghani che, non avendo partecipato ai negoziati, non riconosce l’impegno a liberare 5000 ribelli prigionieri in cambio della liberazione di mille soldati regolari; e il presidente Trump che, come se fosse la cosa più naturale di questa terra, ammette, dopo un colloquio con un capo dei talebani, il rischio che a Kabul, una volta andatisene americani e loro alleati, tornino a comandare gli ‘studenti’ islamici, in barba alle speranze di ammodernamento del Paese e di emancipazione delle donne.
L’episodio più grave della settimana da incubo afghana venerdì nella capitale: un’azione terroristica fa una trentina di vittime e oltre 60 i feriti durante una commemorazione del leader della minoranza sciita Hazara Abdul Ali Mazari, ucciso dai talebani nel 1995. Due assalitori, poi neutralizzatii, hanno aperto il fuoco contro la folla con armi automatiche: l’attacco è stato rivendicato dall’Isis, che l’anno scorso aveva sparato colpi di mortaio contro l’analoga cerimonia – 11 le persone uccise -.
E’ l’azione più sanguinosa dopo l’intesa che prevede il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese entro 14 mesi. E prova che l’Afghanistan resta in una situazione di caos e insicurezza, con attacchi, combattimenti, attentati. Il presidente Ghani, uno dei pochi notabili non presenti alla cerimonia, giudica l’attacco “un crimine contro l’umanità”, che allunga un’ulteriore ombra sulla scadenza di martedì 10 marzo, quando dovrebbe esserci a Oslo un incontro inter-afghano. La tregua tra lealisti e talebani, proclamata in vista della firma a Doha, doveva essere protratta, ma venne denunciata dai talebani già il 2 marzo.
Allora, almeno tre persone erano state uccise e 11 ferite in un attentato nella provincia orientale di Khost, dove una moto imbottita di esplosivo venne fatta esplodere durante una partita di calcio.
Il 3 marzo, poco dopo una telefonata definita “eccellente” tra il presidente Trump e il negoziatore dei talebani Mullah Baradar, la prima tra un leader americano e uno talebano dall’inizio del conflitto nel 2001, una ventina tra soldati e agenti di polizia afghani erano stati uccisi in una serie di attacchi dei talebani, contro avamposti dell’esercito nel distretto Imam Sahib di Kunduz e posti di polizia.
La notte successiva, le forze aeree Usa avevano colpito miliziani talebani a Nahr-e Saraj, nel Sud della provincia di Helmand: un’azione definita “difensiva” perché i talebani stavano dando l’assalto a un posto di blocco delle forze afghane e il raid serviva a “interrompere l’attacco”. Fortuna che Trump e Mullah Baradar avevano concordato che non ci sarebbe stata alcuna violenza.
Giovedì, la Camera d’Appello della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja ha “autorizzato”, rovesciando il precedente verdetto in primo grado, “l’apertura di un’inchiesta per presunti crimini di guerra commessi in Afghanistan dal primo maggio del 2003”, inchiesta che potrebbe anche coinvolgere le truppe americane e internazionali, oltre che i lealisti e gli insorti. E’ probabile che gli Stati Unbiti, che non riconoscono la Cpi.