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Le pressioni sull’Ucraina perché mettesse sotto inchiesta i Biden padre e figlio cominciarono almeno due mesi prima della telefonata incriminata del 25 luglio tra i presidenti Donald Trump e Volodymyr Zelenski, all’origine del processo d’impeachment. All’inizio di maggio, Trump ordinò al consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton di aiutarlo a convincere Kiev durante una riunione nello Studio Ovale, presenti il capo ad interim dello staff della Casa Bianca Mick Mulvaney, il suo avvocato personale Rudy Giuliani e l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone. Trump disse a Bolton di chiamare Zelensky, che aveva appena vinto le elezioni, perché incontrasse Giuliani, che stava organizzandosi incontri in Ucraina. Ma Bolton, ostile alla ‘diplomazia parallela’ affidata a Giuliani, non fece mai quella telefonata.
Le ultime rivelazioni dalle bozze del libro di Bolton ‘The Room where it Happened: a White House Memoir‘, che dovrebbe uscire a marzo, ma che la Casa Bianca cerca di bloccare, sono un tentativo in extremis di indurre il Senato ad ascoltare l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, che sa molto sul ‘quid pro quo’ tra Usa e Ucraina.
Ma in America la giustizia va veloce: magari non giunge al verdetto migliore, ma ci arriva in fretta, che l’imputato sia un – presunto – spacciatore o il presidente degli Stati Uniti. Così, nel processo sull’impeachment di Donald Trump, la sentenza appare già matura, appena due settimane dopo l’avvio del procedimento: il presidente sarà assolto, spiega un repubblicano critico, perché è colpevole del ‘quid pro quo’ che gli viene contestato, ma non per questo merita d’essere rimosso.
Ieri mattina, l’alternativa era se andare avanti, ammettendo nuovi testi, o se passare subito al voto, che a quel punto poteva solo essere d’assoluzione. Per ammettere nuovi testi, o nuovi documenti, è sufficiente la maggioranza semplice dei cento senatori; per condannare il magnate presidente, ce ne vogliono i due terzi (67 su 100).
I senatori repubblicani sono 53, i democratici 45, due gli indipendenti (che votano coi democratici). Quindi, per ammettere nuovi testi bisognava che quattro repubblicani votassero con i democratici, sempre che questi siano compatti.
Il nodo era se ascoltare o meno Bolton. Quando uno dei possibili transfughi repubblicani, il senatore del Tennessee Lamar Alexander, rientra nei ranghi (“Il comportamento del presidente è censurabile, ma non è da impeachment”), e quando pure la senatrice Lisa Murkowski si tira indietro, dicendo cose analoghe (il ‘quid pro quo’ è già provato, ma non vale l’impeachment), i giochi paiono fatti.
Mitt Romney conferma il voto a favore dell’ascolto di nuovi testi, fra cui Bolton. Se lo dovesse fare, come ipotizzato, pure Susan Collins, si arriverà a un 51 a 49. E vi sono alcuni democratici indecisi, che vengono da Stati conservatori: i media citano Joe Manchin (West Virginia), Doug Jones (Alabama) e Kyrsten Sinema (Arizona).
Anche un voto pari sarebbe inutile e il processo si avvierebbe comunque verso la fine. Ma, in caso di parità, i democratici potevano chiedere al presidente della Corte suprema, John Roberts, che presiede il processo, di spezzare l’equilibrio – pochi credono che Roberts l’avrebbe fatto -.
Adam Schiff, il deputato democratico che guida l’accusa, propone di limare la proroga del processo a una settimana. Un compromesso potrebbe essere che il processo prosegua sino a mercoledì, cioè fino a dopo il discorso sullo stato dell’Unione di martedì: ci sarebbe più tempo per le dichiarazioni di chiusura di accusa e difesa, senza però sentire nuovi testi.
I democratici respirano il fallimento: il procedimento si sfarina; Trump va verso l’assoluzione e potrà presentarsi martedì con le stimmate del perseguitato politico; l’operazione impeachment finisce con l’essere, come temuto, un boomerang. Il presidente, invece, respira la vittoria: già giovedì twittava “game over”, con una foto di Bolton.
Con una raffica di tweet, da giorni Trump attacca l’ambasciatore e ne mina la credibilità: lo accusa di avere fatto “molti errori di giudizio”, tra cui l’avere proposto in tv il “modello libico” per la Corea del Nord; e dice che “è stato licenziato perché francamente, se lo avessi ascoltato, saremmo ora nella sesta (?) guerra mondiale”. Il libro è “malevolo e falso”, con informazioni riservate. Di Bolton, finito sotto attacco sui social, Rudy Giuliani dice: “E’ un backstabber”, uno che pugnala alle spalle.
Giovedì si erano chiusi i due giorni di domande dei senatori ad accusa e difesa. Il repubblicano Rand Paul ha tentato di fare leggere al giudice Roberts una domanda con il nome della ‘talpa’, l’agente dell’Fbi che con la sua denuncia ha fatto esplodere il Kievgate.
Roberts ha però respinto la domanda. Paul, allora, l’ha letta ad alta voce fuori dall’aula a telecamere accese. Il senatore chiedeva se l’accusa o la difesa fossero al corrente delle voci che due persone “potrebbero avere tramato insieme l’impeachment del presidente prima che fossero formalmente avviate le indagini”. Il nome della ‘talpa’, protetta dai democratici, era già stato svelato da media conservatori.
Continua, intanto, a fare discutere un’affermazione fatta dall’avvocato star Alan Dershowitz, uno dei difensori del presidente: secondo lui, qualsiasi azione intrapresa da un presidente per la sua rielezione è, per definizione, nell’interesse pubblico. Il che vorrebbe dire che, se anche tutte le accuse fossero vere, Trump non avrebbe comunque fatto nulla che meriti l’impeachment.
L’articolo Usa: impeachment, più prove, ma Trump verso assoluzione sembra essere il primo su Giampiero Gramaglia – Gp News.
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