Per tre giorni, responsabili iraniani cercarono di coprire l’abbattimento di un aereo di linea ucraino ad opera della contraerea iraniana. Solo la minaccia di dimissioni del presidente Hassan Rohani convinse i militari e, soprattutto, i Guardiani della Rivoluzione ad ammettere il tragico errore.
Il New York Times ricostruisce le 72 ore tra l’alba dell’8 gennaio, quando il Boeing con 176 persone a bordo – tutte deceduto – venne preso di mira da due missili a 23 secondi di distanza l’uno dall’altro e intercettato dal secondo, e l’11 gennaio, quando Teheran pose termine alle tergiversazioni e disse: “Siamo stati noi”.
Una scelta, a ben vedere e a conti fatti, inevitabile, perché le intelligence occidentali già sapevano – la scena dell’abbattimento era visibile dai satelliti – e perché l’inchiesta internazionale sulle cause della sciagura, con l’esame delle scatole nere, avrebbe certamente e rapidamente accertato la verità. Eppure, ci furono resistenze, anche accanite.
Intervistando diplomatici e funzionari iraniani, personalità in vista dei Guardiani della Rivoluzione e personaggi “vicini all’ ‘inner circle’ della guida suprema”, l’ayatollah Ali Khamenei, e intrecciando dichiarazioni ufficiali e resoconti mediatici, il NYT ricostruisce quando accaduto dietro le quinte: la versione della tragedia e l’iniziale rifiuto di condividere le scatole nere con la Boeing; i dubbi e l’apertura all’indagine internazionale; infine, la certezza e l’ammissione. Non è del tutto chiaro a che punto Khameney e Rohani abbiano intuito la verità e ne abbiamo poi avuta conferma – di sicuro, non ne erano al corrente fin dal primo momento – né quali siano stati i compromessi interni raggiunti.
I principali responsabili dell’errore e della ‘copertura’ sono stati i Guardiani della Rivoluzione, fin dalla dinamica dell’incidente. Chi doveva schiacciare il bottone di lancio dei missili volle consultarsi con i suoi superiori, ma non riuscì a raggiungerli; poi, prese la decisione sbagliata. E, subito dopo, pur consapevoli dal primo momento di quanto accaduto, i responsabili negarono l’evidenza e la verità anche al presidente e alla Guida Suprema.
Certo, dopo l’abbattimento del Boeing ucraino e il riconoscimento dell’errore, Teheran ha irrigidito la sua posizione verso gli Stati Uniti, con l’omelia di Khamenei alla preghiera di venerdì 17 – quando definì il presidente Trump “un pagliaccio” e Israele “un tumore” – e il recente annuncio d’altri passi verso un potenziale utilizzo militare dell’energia nucleare. L’Iran, che non si considera più vincolato dall’accordo del 2015 denunciato dagli Stati Uniti, s’appresta a presentare, l’8 aprile, una nuova generazione di centrifughe: “La nostra scorta d’uranio ha superato i 1.200 kg e possiamo arricchirlo quanto vogliamo”, dicono i responsabili del programma atomico iraniano.
L’annuncio, e un’intervista del ministro degli Esteri di Teheran Javad Zarif, innescano uno scambio al vetriolo via twitter: “No, grazie”, replica il presidente Trump, spiegando: “Il ministro degli Esteri iraniano dice che l’Iran vuole negoziare con gli Stati Uniti, ma vuole che le sanzioni siano prima rimosse. No grazie!”. Zarif rilancia: “Trump farebbe meglio a basarsi sui fatti piuttosto che sui titoli della Fox”; e puntualizza quanto dichiarato a Der Spiegel: “L’Amministrazione Trump può correggere i suoi comportamenti passati, togliere le sanzioni e tornare al tavolo delle trattative”.
Tornando all’abbattimento dell’aereo di linea ucraino, proprio Zarif rivela che il militare iraniano che attivò il sistema missilistico antiaereo è attualmente in carcere, senza precisare da quando. L’Iran aveva già annunciato di avere effettuato alcuni arresti nell’ambito dell’inchiesta, senza mai precisare le funzioni degli indagati. Il ministro liquida come “una reazione emotiva” le proteste popolari seguite all’ammissione di responsabilità da parte del regime.