Uno, non vogliono che parli perché non sa che cosa dice. L’altro, non vogliono che parli perché sa troppo bene quel che dice. La maggioranza repubblicana boccia le mozioni democratiche e fa muro perché il capo ad interim dello staff della Casa Bianca, Mick Mulvaney, e l’ex ambasciatore all’Onu e consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, non testimonino al processo sull’impeachment del presidente Donald Trump, in corso nel Senato di Washington.
Entrambe sono considerati dal presidente e dai repubblicani una mina vagante. Nell’ottobre scorso, Mulvaney aveva ammesso che il magnate presidente aveva deciso di bloccare gli aiuti militari all’Ucraina per fare pressioni su Kiev perché avviasse un’indagine per corruzione su Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama e un potenziale avversario a Usa 2020, e suo figlio Hunter, socio d’una società energetica ucraina.
Le dichiarazioni di Mulvaney erano la pistola fumante del cosiddetto ‘quid pro quo’, cioè del baratto tra interessi nazionali e interessi personali. Mulvaney successivamente ritrattò, ma Trump gli vietò d’andare a deporre di fronte alla commissione intelligence della Camera: aveva già fatto abbastanza guai.
Diverso il discorso per Bolton, un ‘dottor Stranamore’ della diplomazia statunitense, ma una persona sicuramente competente e capace di dosare le parole. Bolton si dimise, o fu licenziato, dal vertice del Nsc all’inizio di settembre, quando il Kievgate c’era già stato, ma non era ancora esploso; e s’ignora se la vicenda abbia avuto a che fare o meno con la sua fuoriuscita dalla Casa Bianca. Fatto sta che, durante l’inchiesta della Camera, in autunno, Bolton ha più volte fatto sapere di avere cose da dire, ma di volerlo fare solo se autorizzato dal presidente o costretto dalla magistratura. Trump non intende dargli via libera e i repubblicani bloccano un’istanza dei democratici per convocarlo.
Per contro, il segretario di Stato Mike Pompeo sarebbe pronto a testimoniare, se richiesto – ma lui sarebbe un teste a discarico -, mentre Trump, al rientro da Davos, dove ha partecipato al World Economic Forum, esprime il desiderio di assistere al processo, aggiungendo, però, che “probabilmente i miei avvocati avrebbero qualcosa da obiettare”.
Il dibattimento sull’impeachment è ripreso ieri nell’aula del Senato, dopo una prima giornata procedurale fiume: una maratona di oltre 13 ore chiusasi con l’approvazione della risoluzione presentata dal leader della maggioranza Mitch McConnell sulle regole del dibattimento.
Sono stati bocciati 11 emendamenti dei democratici, fra cui la richiesta d’acquisire vari documenti del Pentagono, del Dipartimento di Stato e dell’ufficio bilancio della Casa Bianca, carte collegate alla decisione di Trump di congelare 391 milioni di dollari di aiuti militari all’Ucraina, finché Kiev non aprisse l’indagine sui Biden.
La risoluzione del capo dei repubblicani in Senato Mitch McConnell, un po’ rettificata voto dopo voto, fissa le regole del processo: accusa e difesa hanno tre giorni a testa per esporre le proprie tesi, in un arco di tempo non superiore a 24 ore.
Le ultime battute della prima giornata del dibattimento in Senato erano state segnate da stanchezza e nervosismo. Il presidente della Commissione Giustizia della Camera, Jerry Naddler, riferendosi ai no a raffica di repubblicani e Casa Bianca alle richieste dei democratici, ha detto: “Solo chi è colpevole cerca di nascondere le prove”.
I legali del presidente hanno risposto accusandolo di volere “fare carta straccia della Costituzione”. Per riportare la calma, c’è voluto l’intervento del presidente della Corte Suprema e del dibattimento, il giudice John Roberts, che ha ammonito le parti richiamandole a moderare i toni e a usare linguaggio e comportamento consoni.
La seconda giornata è cominciata con l’intervento del presidente della Commissione Intelligence della Camera Adam Schiff: “Siamo qui per la rimozione di Trump”. Un’affermazione che appare più velleitaria che concreta.