Con l’attacco che ha ucciso il generale iraniano Qassim Soleimani, Donald Trump getta “dinamite in una polveriera”: l’espressione è di Joe Biden, uno che di esteri se ne intende. Trump sceglie d’innescare nel Golfo “una forte escalation” non alla ricerca di maggiore sicurezza per gli Usa, ma di consenso e, quindi, di voti per se stesso. Il giudizio dell’America rispecchia la polarizzazione dell’opinione pubblica: i repubblicani approvano, i democratici criticano.
L’azione ordinata dal magnate presidente, probabilmente cogliendo un’opportunità segnalata dall’intelligence e dai militari, getta tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo.
E c’è il dubbio che Trump anteponga i suoi calcoli elettorali ad ogni altra considerazione. Del resto, la vicenda dell’Ukrainagate, all’origine della procedura d’impeachment in atto, l’ha già dimostrato, su un livello di pericolosità incommensurabilmente inferiore. Trump conta sul fatto che un conflitto coagula il consenso intorno al presidente: negli Stati Uniti ci vogliono anni perché una guerra, anche ingiusta e assurda come il Vietnam o l’invasione dell’Iraq nel 2003, diventi impopolare.
Ai rivali di Trump, e anche agli osservatori non condizionati dalla politica interna, la mossa appare “un azzardo”, “un calcolo pericoloso”, “l’azione più rischiosa in Medio Oriente dall’invasione dell’Iraq”. Ma il magnate vuole mostrare risolutezza e leadership e scavalcare l’ostacolo dell’impeachment che si frappone alla rielezione.
Nell’imminenza dell’inizio del processo in Senato, Trump cede ai falchi anti-iraniani del suo staff e del partito repubblicano e mostra i muscoli. Un po’ come fece Bill Clinton ordinando raid contro Saddam Hussein il 16 dicembre 1998, tre giorni prima del processo di impeachment contro di lui. Furono quattro giorni di bombardamenti, ufficialmente per punire il dittatore di Baghdad che boicottava gli ispettori dell’Onu a caccia di armi di distruzione di massa.
L’obiettivo di Trump sarebbe analogo a quello di Clinton: creare una sorta di “contro narrazione”, quella del pericolo di conflitto con l’Iran, da contrapporre a chi punta a rimuoverlo. Ma l’eliminazione di Soleimani, definita dalla speaker della Camera Nancy Pelosi azione “provocatoria e sproporzionata”, crea scompiglio nel Congresso, che non ne era stato avvertito in alcun modo. E s’è subito riaperto il dibattito – un caso di scuola – sui limiti ai poteri di guerra dati al presidente.
Se l’ex vice-presidente di Obama Biden parla di “dinamite in una polveriera”, Bernie Sanders dice che “un’azione militare in Iran sarebbe peggio della guerra in Iraq” del 2003, che, a suo parere, è stata “il peggior errore di politica estera nella storia moderna degli Stati Uniti”: “Quindi, lavoriamo insieme e preveniamo questa guerra”.
Meno radicale il giudizio di Elizabeth Warren, che ne fa quasi un fatto economico: “Soleimani era un assassino responsabile della morte di migliaia di persone, inclusi centinaia di americani”. Ma l’attacco “avventato” Trump “provoca un’escalation delle tensioni con l’Iran. La nostra priorità deve essere evitare un’altra costosa guerra”.