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“L’Iran sarà ritenuto pienamente responsabile delle vite perse o dei danni subiti da qualsiasi nostra struttura. Pagheranno un GRANDE PREZZO! – tutto in maiuscolo, ndr –… Non è un avvertimento, è una minaccia. Felice Anno Nuovo!”. E’ un tweet di Donald Trump, il 31 dicembre, mentre l’ambasciata degli Usa a Baghdad era circondata da centinaia di manifestanti che protestavano contro i raid americani, la notte prima, su postazioni di milizie pro-iraniane in Iraq (e in Siria).
Poche ore dopo, il magnate presidente, parlando ai giornalisti a Mar-a-Lago, in Florida, dove trascorre le vacanze d’inverno, diceva di non aspettarsi una guerra con l’Iran: “Non vedo come ciò possa accadere … Adoro la pace”. Il 2020 della politica estera degli Stati Uniti incomincia, dunque, come s’era appena concluso il 2019: nel segno della dissociazione tra il dire e il fare (e viceversa); e. ovviamente, della contraddizione fatta sistema.
Come se non bastassero le grane in Campidoglio, dove il processo per impeachment presto inizierà in Senato, Trump se ne trova altre in giro per il Mondo: con l’‘arci-nemico’ Iran -; e con l’amicone ‘pappa e ciccia’ Kim Jong-un, in Estremo oriente.
Colpire l’Iran via Iraq (e Siria) – La retorica anti-iraniana dell’Amministrazione statunitense era, da settimane, in sordina. Però, sabato 28 dicembre Trump ordina una ritorsione, dopo l’uccisione d’un contractor americano in una base a Kirkuk attaccata da milizie filo-iraniane: raid aerei contro cinque postazioni filo-iraniane in Iraq e in Siria, “un successo” secondo il Pentagono, che non dà bilanci di vittime e danni.
Per tutta risposta, razzi cadono in prossimità di una base che ospita soldati americani a Taji, a nord di Baghdad; e Iraq, Iran e Russia denunciano concordi la violazione Usa della sovranità irachena, “un atto di terrorismo” per Teheran, “inaccettabile e controproducente” per Mosca. Con la politica del ‘pugno sul tavolo’, già sperimentata in Siria a due riprese, Trump compatta, com’era scontato, l’opinione pubblica irachena, già mal disposta, contro gli Stati Uniti e innesca proteste anti-americane.
A Mar-a-Lago si tiene una sorta di consiglio di guerra, con i segretari agli Esteri Mike Pompeo e alla Difesa Mark Esper. A Baghdad, l’ambasciata statunitense, un edificio immenso, è sotto attacco: una torretta va in fiamme; la protezione assicurata dalle autorità irachene non è a tenuta stagna; Trump si irrita e chiama il premier e il presidente, entrambi dimissionari – l’Iraq è scosso da mesi da violente proteste sociali, economiche e politiche, fomentate, secondo molte versioni, dall’Iran -.
Alla fine, il magnate dà a Teheran la colpa degli incidenti an-americani e decide di inviare “immediatamente” 750 soldati Usa in più in Medio Oriente – 500 sarebbero già giunti in Kuwait -. A conti fatti, le truppe addizionali mobilitate potrebbero essere 4.000. Mostrato i muscoli, Trump stempera le tensioni e si riscopre pacifista, mentre a Baghdad torna una calma tesa, dopo il ricorso ai lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine.
Il ping-pong con Kim Jong-un – Analogo, pur se più diluita nel tempo, il rimbalzo di fatti a parole a un altro capo del Mondo, in Corea del Nord: il dittatore Kim Jong-un è impaziente che accada qualcosa, dopo la passeggiata più mediatica che storica di Trump a cavallo del confine fra le Coree, il 30 giugno, seguito a sorpresa del fallimento a sorpresa del Vertice di Hanoi in febbraio.
Dopo sporadici ‘fuochi artificiali’, con lanci di missili, Kim torna a minacciare: stop alla moratoria sui test nucleari e i missili intercontinentali e arrivo di una “nuova arma strategica”, che dovrebbe convincere gli Usa a revocare le sanzioni. A Washington, l’avvertimento è accolto senza isterismi: Trump è convinto che Kim “manterrà i patti” – quali?, visto che accordi non ci sono stati -.
Per il magnate, missili in volo nell’anno del voto possono rappresentare un problema. A meno che Trump non speculi, proprio in chiave elettorale, sulle tensioni internazionali e sul loro tradizionale effetto di compattamento dell’opinione pubblica dietro il presidente simbolo dell’unità nazionale (anche se questo è piuttosto il simbolo della polarizzazione).
Il disgelo tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord è di fatto fermo: Washington si rifiuta di cancellare le sanzioni, fin quando Pyongyang non abbandonerà del tutto il suo programma nucleare; e Pyonyang non fa marcia indietro sul nucleare fin quando Washington non abroga le sanzioni.
La svolta di Kim viene annunciata dopo un insolito vertice di quattro giorni del partito comunista: colpa degli americani, che – è la tesi nord-coreana – “aumentano le sanzioni e creano instabilità nella regione effettuando esercitazioni con Seul”. Trump è più paziente con lui che con l’Iran: “Penso che Kim sia un uomo di parola”, è il commento del magnate. Gli Usa “vogliono la pace e non lo scontro”, gli fa eco Pompeo.
L’articolo 2020: Usa, Baghdad e Kim, spine di Trump auto-inflitte sembra essere il primo su Giampiero Gramaglia – Gp News.
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