Questa è facile. Domanda: la Libia nel 2020 cesserà di essere uno Stato fallito e sarà pacificata, terrà libere elezioni, avrà un governo rappresentativo di tutto il Paese? Risposta: no. La Libia resterà un puzzle, un rompicapo, un cubo di Rubik della politica mediterranea e internazionale, ammesso che esista ancora come entità territoriale. Nel Paese che, dopo l’uccisione di Muhammar Gheddafi, non ha più trovato né unità né stabilità, l’intreccio delle alleanze e delle divisioni, interne e internazionali, s’è terribilmente complicato, in questo snodo tra 2019 e 2020.
Finora, l’Italia, l’Ue, l’Occidente, l’Onu stavano, con tante parole, pochi fatti e qualche defezione importante – la Francia -, dalla parte del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, cioè quello presieduto da Fayez al-Sarraj. Quasi improvvisamente scopriamo, nelle parole del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che di esteri parla poco e quando lo fa si capisce perché, e nelle scelte dell’Amministrazione Trump, che pure ci avrebbe a suo tempo affidato le chiavi della Libia, l’ambiguo e tardivo pregio dell’equidistanza tra al-Sarraj e il generale arci-nemico Khalifa Haftar, che ha dalla sua l’Egitto e la Russia. Roma teme di trovarsi dalla parte sbagliata, alla resa dei conti; Washington non vuole favorire l’acquisizione d’influenza di Mosca.
E mentre noi ci culliamo negli effetti taumaturgici d’una missione Ue/Onu il 7 gennaio, ipotizzata per primo da Di Maio e condivisa da alcuni suoi omologhi europei – a guidarla Josep Borrell, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue -, ecco che la Turchia si schiera con al-Sarraj e gli mette a disposizione uomini e mezzi. Certo, sorprende e desta interrogativi che Erdogan si discosti dalle opzioni di Putin, ma il ‘califfo di Ankara’ sa muoversi tra Mosca e Washington, rendendosi indispensabile e nel contempo indisponente; e l’‘autocrate del Cremlino’ sta forse valutando i pregi di un’equidistanza per procura.
L’inizio del 2020 s’annuncia rovente. La Turchia anticipa al 2 gennaio il voto, che era previsto il 6, sull’invio di truppe in Libia, secondo l’accordo firmato con Tripoli il 27 novembre (intesa che prevede un reciproco riconoscimento dell’estensione delle rispettive acque territoriali, con la Zee, cioè la Zona economica esclusiva turca, che viene a soprapporsi a Cipro e a molte isole greche). L’ennesimo ‘dito nell’occhio’ di Ankara ad Atene e all’Ue.
E non è escluso che, a fronte delle dinamiche in atto, la missione europea slitti o salti, tanto più che l’assemblea che rappresenta le milizie islamiche di Misurata e Zintan, che hanno finora spalleggiato al-Sarraj, si dichiara contraria alla visita.
Forti dell’appoggio turco, armamenti ed equipaggiamenti, truppe regolari, 1600 miliziani dell’opposizione siriana –mercenari che badano al soldo, non alla bandiera -, al-Sarraj e i suoi ritrovano orgoglio e baldanza e se la prendono con l’Egitto, che “sta tentando un colpo di Stato”, e con gli Emirati arabi uniti, che dal 2014 sostengono il generale Haftar; e affermano di avere perso “fiducia nella legittimazione internazionale”.
Con l’Anno Nuovo ci saranno anfibi turchi sulla sabbia libica; e la pace non sarà più vicina. Lezioni da trarre? Se si vuole aiutare qualcuno, bisogna farlo con decisione, non con esitazione; idem, se si vuole mediare. A cercare di tenere il piede in due scarpe, vizietto congenito della diplomazia italica, non si guadagna né credito né influenza.
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La versione de Il Fatto Quotidiano
Puzzle Libia? Rompicapo Libia. L’intreccio delle alleanze nello Stato fallito, che, dopo l’uccisione di Muhammar Gheddafi non ha più trovato né unità né stabilità, si complica: mentre Stati Uniti e Italia cercano di riposizionarsi in una improbabile, e comunque tardiva, equidistanza tra al-Serraj e Haftar, i due protagonisti del confronto Tripolitania – Cirenaica (ma è una semplificazione), Russia ed Egitto restano con Haftar e la Turchia si schiera con al-Sarraj e gli mette a disposizione uomini e mezzi. Desta interrogativi il sottrarsi di Erdogan alle opzioni di Putin, ma il ‘califfo di Ankara’ sa muoversi tra Mosca e Washington, rendendosi indispensabile e nel contempo indisponente.
L’inizio del 2020 s’annuncia rovente. La Turchia anticipa al 2 gennaio il voto, che era previsto il 6, sull’invio di truppe in Libia, secondo l’accordo firmato con Tripoli il 27 novembre (intesa che prevede un reciproco riconoscimento dell’estensione delle rispettive acque territoriali, con la Zee, cioè la Zona economica esclusiva turca, che viene a soprapporsi a Cipro e a molte isole greche). L’ennesimo ‘dito nell’occhio’ ad Atene e all’Ue.
La mozione depositata nel Parlamento turco prevede l’invio di truppe in Libia, come ha confermato il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, incontrando la dirigenza del Chp (Partito repubblicano del popolo), principale forza d’opposizione. Il Chp non condivide la scelta d’inviare truppe in Libia perché è convinto che, “come in Siria, ciò causerà più problemi che benefici” ad Ankara.
A questo punto, la decisione turca precederà la missione Ue/Onu del 7 gennaio, ipotizzata per primo dal ministro degli Esteri italiano Luigi de Maio e accettata da alcuni suoi omologhi europei: dovrebbe guidarla l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue Josep Borrell. Ma non è escluso che, a fronte delle dinamiche in atto, la missione slitti o salti, tanto più che l’assemblea che rappresenta le milizie islamiche di Misurata e Zintan, che hanno finora spalleggiato al-Sarraj, la Assemblea nazionale libica, s’è pronunciata contro la visita.
Forte dell’appoggio della Turchia, che sarebbe pronta a inviare in Libia truppe regolari, ma anche 1600 miliziani dell’opposizione siriana, il capo dell’Alto Consiglio di Stato libico Khalid Al-Mishri, parlando ad al Jazeera, attacca l’Egitto, che “sta tendando un colpo di Stato in Libia”, e gli Emirati arabi uniti, che dal 2014 sostengono il generale Khalifa Haftar e la Camera di Tobruk presieduta da Aqila Saleh.
Secondo Al-Mishri, che parlava ad al Jazeera, il governo di al Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, non sta chiedendo ai turchi di sostituirsi ai libici sul campo di battaglia: “Possiamo difendere Tripoli, la Sirte, Misurata e Al-Zawiya. Vogliamo solo che la Turchia porti l’equilibrio delle forze … Nessuno ci ha aiutato nell’ultimo periodo, così che abbiamo perso fiducia nella legittimità internazionale”. Un’eco, forse, di quei tentativi di equidistanza che Stati Unti ed Italia stanno tentando.
I 1.600 combattenti mercenari siriani destinati in Libia sono stati trasferiti in campi d’addestramento in attesa di essere inviati a combattere a fianco delle forze di al-Sarraj contro l’offensiva di Haftar. Lo riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani, rettificando informazioni precedenti, che parlavano di 900 miliziani già arrivati a Tripoli e di un migliaio in addestramento.
Secondo fonti dell’Ong, i combattenti fanno parte delle milizie del Sultano Murat e di Suleyman Shah e della Divisione al-Mùtasim, fedeli ad Ankara, e sarebbero ora giunti dall’area di Afrin, ex enclave curda nel nord della Siria conquistata dalla Turchia nel 2018 con l’aiuto dei miliziani locali.
Giovedì, in Parlamento, la mozione per l’invio delle truppe avrà il voto contrario del Chp, perché “la Turchia rischia d’essere trascinata in un nuovo devastante conflitto, in cui verrà ancora versato “sangue islamico”, mentre bisognerebbe “dare priorità a una soluzione diplomatica”. Altre forze d’opposizione minori sono contrarie alla missione, ma l’Akp del presidente Erdogan e i suoi alleati hanno i numeri per approvarla: con l’Anno Nuovo, ci saranno anfibi turchi sulla sabbia libica. E la pace non sarà più vicina.