Per l’ennesima volta, Donald Trump interferisce, con la presenza fisica, nelle vicende politiche interne britanniche. Ancora candidato alle presidenziali, era nel Regno Unito, in Scozia, il 23 giugno 2016, giorno del referendum sulla Brexit, a fare il tifo per il ‘leave’ – gli scozzesi gli suonarono le cornamuse, ma i britannici ascoltarono il suo piffero -. Era a Londra in visita ufficiale, l’estate scorsa, a dare uno scortese ‘benservito’ alla premier uscente Theresa May, già pregustando l’arrivo a Downing Street di Boris Johnson, un suo clone quanto a rozzezza e impudenza. E ora arriva a Londra al Vertice della Nato che compie 70 anni a una settimana dal voto del 12 dicembre, decisivo per il futuro della Gran Bretagna e per la Brexit.
Le polemiche al calor bianco non mancano neppure in questa circostanza, a margine del Summit che procede tra bilaterali contrastati – specie quello con il presidente francese Emmanuel Macron -, ricevimenti a Buckingham Palace e una plenaria blindata a Watford, nel verde dell’Hertfordshire. Rispetto ai suoi standard, è un Trump insolitamente cauto, almeno quando deve parlare del voto, che per l’amico Johnson – newyorchese di nascita e filo-americano d’istinto – è appuntamento cruciale, anzi vitale: forse, è stato Boris a chiedere al magnate e showman di non esplicitare troppo il suo endorsement, che potrebbe pure rivelarsi controproducente.
Decine di leader d’America ed Europa, una trentina, si riuniscono a Londra per onorare una vecchia signora: non la Regina Elisabetta – anche lei, certamente -, ma l’Alleanza atlantica, che arriva piena d’acciacchi ai suoi 70 anni, nel pieno di una crisi di mezza età tardiva. Per consolarsene, la Nato progetta di regalarsi un aumento delle risorse, con l’obiettivo di arrivare a 400 miliardi di dollari entro il 2024, e stanziamenti per la difesa e gli armamenti in ogni Paese membro pari a un minimo del 2% del Pil nazionale.
“Una storia di successo”, scrive su AffarInternazionali.it Alessandro Marrone: “Se il mondo è oggi più multipolare e meno occidentale di un decennio fa, il Vertice è un modo per ricordare valori, interessi e obiettivi strategici che accomunano e legano i Paesi occidentali. E per non dimenticare che se è stato possibile costruire in Europa uno spazio di pace e di sicurezza a partire dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e all’ombra della Guerra Fredda, è certo possibile mantenerlo, proteggerlo e ampliarlo oggi in una situazione molto meno drammatica”. Nonostante Trump. E pure Johnson.
Trump a Londra, l’incursione ‘soft’
“Un’incursione soft”: così, Alessandro Logroscino, il corrispondente dell’ANSA da Londra, che sempre ci aiuta a leggere le vicende britanniche, definisce in chiave elettorale il passaggio londinese di Trump: “Non nasconde certo le sue preferenze per il (favoritissimo) premier conservatore, che definisce ‘molto capace’ e su cui è pronto a giurare che ‘farà un buon lavoro’. Né disconosce d’essere ‘un fan della Brexit’ e di aver auspicato fin dal 2016 l’uscita del Regno Unito dall’Ue, sia pure come ‘opinione personale’. Ma aggiunge subito di volere ‘stare fuori da queste elezioni’”.
Una discrezione più unica che rara, e magari poco sincera, un po’ artefatta, con persino un’apertura di credito – misurata – al principale rivale di BoJo, il leader laburista Jeremy Corbyn: un socialista mai pentito, portavoce da sempre della sinistra laburista pacifista, che Johnson, in vista del Vertice della Nato, descrive come “un pericolo” per la sicurezza nazionale, un anti-occidentale “ingenuo” davanti al terrorismo o alla Russia, un amico “dei nostri nemici”. Con Corbyn, Trump si dice pronto a dialogare, dovesse mai vincere le elezioni e diventare premier. “Posso lavorare con chiunque, sono una persona con cui è facile lavorare”.
Basterà a evitare l’accusa d’interferenza? Secondo Logroscino, “forse no, tenuto conto del passato”. Ma almeno attenua il rischio per Johnson di un effetto boomerang: un endorsement troppo esplicito da parte di una figura ingombrante e impopolare come Trump finirebbe per essere paradossalmente un vantaggio più per chi lo subisce che per chi lo riceve.
Il Vertice della Nato: una pausa nella campagna
Fissato da tempo, ben prima che fossero indette le elezioni anticipate del 12 dicembre, il Vertice della Nato è una tradizione che si rinnova nel Regno Unito: se ne sono fatti a Gleneagles in Scozia, in Galles e ora a Londra, dove i riti del Summit congelano per 48 ore le dinamiche della campagna.
Quando gli Stati Uniti e l’Alleanza atlantica, che compie settant’anni, avevano nemici ben definiti, cioè l’Unione sovietica e il Patto di Varsavia, i Vertici della Nato erano rari e noiosi: tutto era già scritto prima e le folle che scandivano nelle piazze “Meglio rossi che morti” non spostavano d’una riga le certezze dei leader, che puntualmente confermavano la decisione di installare gli euromissili.
Da quando ha vinto la Guerra Fredda, l’Alleanza si trova ad avere nemici sempre indefiniti e talora immateriali, come il terrorismo integralista o il cyber-terrorismo, mentre concetti dominanti fino agli Anni Novanta – dissuasione, fuori area, pronto intervento – non hanno più senso, o hanno valenze profondamente diverse. I Vertici della Nato sono più frequenti, ma ugualmente noiosi: se, sulla carta, c’è da inventarsi ogni volta una nuova missione, per rendere attuale l’Alleanza, lo sforzo è soprattutto quello di coprire gli screzi tra partner.
Che esplodono quando gli Stati Uniti hanno toni e modi da padre padrone: accadde, ad esempio, con l’invasione dell’Iraq nel 2003; e accade di nuovo e di più ora, perché Trump non polarizza solo l’opinione pubblica negli Stati Uniti, ma pure il campo dei suoi alleati. Nessuno o quasi ha voglia d’incontrarlo: è una scheggia impazzita, che magari ti chiede di mettere sotto inchiesta un suo rivale e che vuole solo potersi vantare, tornando a casa, di avere convinto gli alleati a pagare di più per la difesa comune.
A Londra, Trump vuole concentrare l’attenzione sui pericoli rappresentati dalla Cina e dal 5G ‘made in Huawei e Zte’ e vuole distogliere l’opinione pubblica americana dagli sviluppi dell’inchiesta sull’impeachment. Le questioni ‘filosofiche’ poste dal presidente Macron, secondo cui la Nato “è cerebralmente morta”; le relazioni critiche con la Russia e gli irrisolti nodi ucraini; e ancora i contrasti sulle scelte nei confronti dell’Iran e l’altalena delle opzioni contro l’Isis e in Afghanistan non lo appassionano.
Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure critica il giudizio del francese sull’Alleanza, non arrivano per fare baruffa, ma neppure per fare concessioni. A loro, va bene che tutto si risolva nell’elogio, dal sapore magari un po’ funebre, della Nato, che, nei suoi settant’anni, ha quasi triplicato i suoi membri, convertendo nelle sue fila in alleati trenta ex nemici. Poi, ciascuno a casa, amici/nemici come prima; e chi resta torna a fare campagna.
Verso il voto con un pronostico e molte incertezze
“Elettori capricciosi, un sistema bipartitico che sembra segnare il passo e naturalmente il terremoto Brexit, che ha scardinato tutte le convenzioni della Gran Bretagna. Ce n’è di che rendere le elezioni del 12 dicembre tra le più cariche di conseguenze, da decenni a questa parte”: Alessandra Rizzo, giornalista italiana a Sky News digital a Londra, sintetizza così l’attesa del voto nel Regno Unito.
Con una frequenza inusuale per un Paese un tempo modello di stabilità politica, i britannici vanno alle urne per la terza volta in quattro anni, la quarta con il referendum sulla Brexit del 2016. Devono scegliere tra la “Brexit subito” del premier conservatore Johnson, il favorito, e il secondo referendum promesso, dopo lunghi tentennamenti, dal leader laburista Corbyn.
Le incognite sono molte, anche se i sondaggi e i giochi delle alleanze, con la desistenza preventiva dei ‘brexiteers’ pro conservatori, fanno pendere la bilancia dei pronostici dalla parte dei tories. Pure la data del voto è un ulteriore piccolo elemento d’incertezza: è la prima elezione in Gran Bretagna nel mese di dicembre da quasi un secolo, precisamente dal 1923, e ciò potrebbe condizionare l’affluenza di anziani e studenti universitari.
Gli ‘swing voters’ che non t’aspetti e il pendolo del bipartitismo
In un’analisi per AffarInternazionali.it, la Rizzo osserva che “i britannici sono diventati un popolo di ‘swing voters’, elettori che oscillano tra i partiti senza particolari vincoli di fedeltà. Secondo un’analisi del British Election Study, nelle ultime tre elezioni politiche nel Regno Unito (2010, 2015 e 2017), quasi la metà dell’elettorato ha votato per partiti diversi rispetto alla volta precedente. Nel 2015, il 43% degli elettori circa ha dato il voto a un partito diverso rispetto alle elezioni precedenti; e, nel 2017, la percentuale è stata del 33%. Una conseguenza di quelli che il British Election Study definisce ‘shock elettorali’, come la crisi finanziaria o la crisi dell’immigrazione”.
“La Brexit è piombata come un macigno su quest’elettorato volubile e disilluso dalla classe politica. Oggi in Gran Bretagna è il tema identitario per eccellenza, che s’intreccia alle e spesso surclassa le alleanze di partito. La tradizionale distinzione Tory/Labour, legata a ideologie e classe sociale, è tramontata. Non a caso i Tories vanno alla caccia dei voti del cosiddetto ‘Workington Man’, l’elettore tipo nel Nord Inghilterra che tradizionalmente vota Labour ma che al referendum del 2016 s’è schierato per la Brexit”.
In questo clima, ci s’interroga se il bipartitismo nel Regno Unito sia finito o sia di ritorno. Negli ultimi 15 anni, come tendenza generale, la frammentazione politica in Gran Bretagna è cresciuta. Alle elezioni del 2005, le ultime vinte da Tony Blair, i tre partiti maggiori – Labour, Tory e liberal-democratici – si sono accaparrati quasi il 90% dei voti. Dieci anni dopo, nel 2015, la percentuale è scesa al 75%, con lo Ukip, l’ex partito di Nigel Farage, salito a un inatteso 12,6%, e il Partito Nazionalista Scozzese al 4,7%. La tendenza è stata però invertita al voto di due anni fa, quando i tre partiti principali hanno di nuovo conquistato quasi il 90%. Che cosa dirà, su questo punto, il voto del 12 giugno è un’ulteriore incognita.
Da partita a quattro a confronto diretto conservatori/laburisti
Nel Regno Unito, le elezioni – osserva la Rizzo – sono partite come una gara a quattro: conservatori e laburisti minacciati dal Brexit Party, il nuovo partito di Farage, vittorioso alle elezioni europee di maggio, e dai liberal-democratici, che hanno trovato una nuova identità elettorale come il partito che vuole bloccare la Brexit.
Ma la gara rischia di rivelarsi una corsa tra i due partiti maggiori. Il Brexit Party ha annunciato che non presenterà candidati nei 317 seggi vinti dai Tories alle precedenti elezioni. E’ una mossa che potrebbe risultare decisiva a vantaggio dei conservatori perché evita di spaccare il voto pro-Brexit in moltissimi collegi e perché offre un implicito sostegno alla politica dei Tories sulla Brexit. Farage sta tenendo un basso profilo nella campagna elettorale; e il Brexit Party crolla nei sondaggi, a fronte di un’impennata dei conservatori.
Quanto ai Lib Dem, stentano a prendere quota sotto la nuova leader Jo Swinson, le cui scelte sono tutte uno ‘stop and go’, sul referendum, l’articolo 50, l’ipotesi di alleanza di governo con i laburisti. Ma resta la possibilità che, con una buona prestazione delle aree più fortemente europeiste, possano diventare i ‘kingmakers’ in un Parlamento senza maggioranza.
C’è, infine, il fattore Scozia. I conservatori sono dati in netto calo, in una terra loro tradizionalmente inospitale. Il Partito Nazionalista Scozzese, l’Snp, che non vuole la Brexit, è in ascesa. Se i Comuni non avranno una maggioranza certa, l’Snp potrebbe sostenere un accordo di governo con il Labour, a patto di ottenere l’agognato secondo referendum sull’indipendenza scozzese. Che potrebbe essere un ‘de profundis’ per il Regno Unito.