Quando abbassi la guardia, perché credi l’avversario ormai sconfitto, quello ti colpisce, magari racimolando le forze della disperazione. Nell’Iraq da settimane attraversato da fermenti sociali, politici, etnici, religiosi, che hanno fatto ben oltre cento vittime, un attentato esplosivo ordito dall’Isis ha ferito, domenica 10 novembre, cinque militari italiani: tre in modo grave, nessuno – fortunatamente – in modo letale.
Ma come?, viene da chiedersi, il sedicente Stato islamico non è stato territorialmente sconfitto e recentemente decapitato, con l’uccisione del suo leader, l’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi? E il presidente Usa Donald Trump non s’è appuntato sul petto la medaglia d’una vittoria nella guerra al terrorismo, proprio mentre abbandonava al loro destino, cioè lasciava nelle grinfie della Turchia, i curdi siriani, veri artefici della sconfitta sul terreno dei tagliagole jihadisti?
L’Isis è stato certamente ridimensionato, il suo esercito è stato distrutto o disperso dall’Afghanistan al Sahel. Ma continua ad avere in Iraq migliaia di miliziani mimetizzati fra la popolazione sunnita e cellule operative: l’instabilità della situazione nel Paese ne facilita l’azione.
48 ore prima dell’attacco contro gli italiani, razzi Katyusha erano stati lanciati contro una base aerea a sud di Mosul, Qayyara, dove sono di stanza anche truppe americane – in Iraq, vi sono ancora circa 5000 militari Usa -. Si ignora se la base sia stata colpita e se vi siano state vittime. Mosul è stata la capitale dell’Isis, prima di Raqqa, ed è la città dove al-Baghdadi proclamò il Califfato. E nell’area di Kirkuk vi sono stati 15 attacchi Isis tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre.
Una polveriera che la frustrazione della sconfitta e le tensioni sociali tutto intorno rendono ancora più esplosiva. I nostri uomini su quel fronte sono avvertiti, ma non per questo sono sicuri. L’attentato di Kirkuk è avvenuto nell’imminenza dell’anniversario della strage di Nassiryia, l’episodio più letale per le nostre Forze Armate dalla Seconda Guerra Mondiale: il 12 novembre 2003, 28 italiani uccisi nell’esplosione di un camion bomba lanciato contro una caserma.
La coincidenza acuisce la coscienza della pericolosità di quel fronte. Anche se pochi ricordano bene per quali sbagliati motivi ci finimmo, per compiacere il presidente di un grande Paese alleato che raccontava frottole sulle armi di distruzione di massa del regine iracheno di Saddam Hussein al suo popolo e al mondo.
L’attacco con un ordigno esplosivo rudimentale
L’attentato, riferisce lo Stato Maggiore della Difesa, è avvenuto intorno alle 11 ora locale, nell’area di Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove i militari italiani stavano svolgendo azione di supporto a una unità delle forze speciali dei Peshmerga, i guerriglieri curdi. I cinque feriti sono tre incursori della Marina, appartenenti al Goi, il Gruppo operativo incursori, e due dell’Esercito, appartenenti al 9o Col Moschin.
Uno Ied, cioè un ordigno esplosivo rudimentale, è detonato al passaggio della pattuglia mista, che era a piedi. Gli Ied, Improvised explosive devices, sono divenuti tristemente famosi dall’Afghanistan all’Iraq: nascosti sotto lo sterrato stradale, o collocati ai margini della strada, praticamente impossibili da individuare, se non con lavori di bonifica che richiedono tempo e denaro, sono costati la vita a migliaia di soldati, soprattutto americani, ma anche a molti civili.
La rivendicazione dell’Isis, giunta lunedì, contiene alcuni elementi coincidenti e altri discordanti dalla versione ufficiale: “Con il favore di Dio, l’esercito del Califfato ha preso di mira un veicolo 4×4 che trasportava elementi della coalizione internazionale crociata e dell’antiterrorismo Peshmerga, nella zona di Qarajai, a nord della zona di Kafri (nel distretto di Kirkuk, ndr). L’esplosione d’un ordigno ha causato la distruzione del veicolo e il ferimento di quattro crociati e quattro apostati”. La rivendicazione è apparsa sull’agenzia ufficiale dell’Isis Amaq ed è stata ripresa dal Site, il sito che monitora le comunicazioni degli integralisti. Contestualmente, l’Isis rivendicava l’uccisione di due preti in Siria.
I cinque militari italiani coinvolti dall’esplosione sono stati subito soccorsi ed evacuati con elicotteri della coalizione: trasportati a Baghdad in un ospedale militare, vi hanno ricevuto le cure del caso. Poi, tra martedì e mercoledì, sono stati portati all’ospedale americano di Ramstein, In Germania.
Dei tre feriti gravi, tutti inizialmente giudicati in prognosi riservata, il peggio messo aveva un’emorragia interna; un altro gravissime lesioni a entrambe le gambe, che sono state parzialmente amputate; il terzo ha perso alcune dita di un piede. Gli altri due militari coinvolti nell’esplosione, invece, hanno subito solo micro fratture e lesioni minori.
Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, avvertito dal capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli, ha a sua volta informato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Numerosi e immediati gli attestati di vicinanza e solidarietà ai feriti e alle loro famiglie, che sono state informate.
In un comunicato diramato lunedì il Consiglio Supremo di Difesa afferma: “L’attacco al contingente in Iraq conferma che il terrorismo trans-nazionale resta la principale minaccia per l’Italia e per tutta la Comunità internazionale. È necessario continuare a garantire la nostra presenza nelle principali aree di instabilità e contribuire con decisione alle strategie tese a sviluppare un efficace sistema di contrasto comune al fenomeno”.
Il fermento in Iraq, centinaia di vittime
Il fermento iracheno delle ultime settimane riduce le capacità delle autorità di tenere sotto controllo il territorio: venerdì, dieci persone erano rimaste uccise tra Baghdad (sei) e Bassora (quattro); sabato, altre quattro sono morte e oltre cento sono rimaste ferite, in rivendicazioni anti-governative che mobilitano soprattutto la comunità sciita, mentre quella sunnita ne è sostanzialmente estranea.
Complessivamente, ben oltre cento morti nelle proteste delle ultime settimane e migliaia di feriti: oltre 16 anni dopo l’invasione americana e il rovesciamento del regime del rais e oltre cinque anni dopo il ritiro del grosso delle forze straniere dal Paese, l’Iraq resta una piaga che sanguina nel Medio Oriente.
Nelle manifestazioni, partite dalla denuncia del carovita, s’intrecciano temi sociali, politici, confessionali, sullo sfondo dell’irrisolta tensione tra gli sciiti (circa i tre quinti della popolazione) ed i sunniti (dominanti, fin quando c’era Saddam).
Mentre il leader sciita Moqtada Sadr chiede le dimissioni del governo ed elezioni anticipate, l’Iran, che con l’Iraq combatté una guerra senza esito con milioni di caduti e che gli è invece stato alleato nel conflitto contro l’Isis ‘incistatosi’ sul suo territorio, accusa gli Stati Uniti e Israele di fomentare scontri e violenze: una tesi da predicatori del venerdì non suffragata da prove, ma che basta a fare ribollire il sangue agli integralisti iraniani.
Le cause della protesta appaiono sostanzialmente endogene. I deputati vicini a Moqtada Sadr, leader della maggiore coalizione parlamentare irachena, hanno sospeso le attività, proclamando una sorta d’aventino, almeno finché il governo non prenda provvedimenti che tengano conto delle richieste delle piazze: lo spargimento del sangue degli iracheni “non può essere ignorato”. Governo e Parlamento si sono impegnati ad ascoltare le sollecitazioni dei dimostranti: lotta alla corruzione, servizi di base (carenti anche dove c’è abbondanza di petrolio), posti di lavoro.
La massima autorità religiosa irachena sciita, Ali Sistani, appoggia le richieste dei manifestanti. Monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, giudica “legittime” le proteste, ma chiede che si torni al dialogo. Il premier Adel Abdel Mahdi, che è di Nassiriya, dove sono state incendiate due sedi di partiti locali, riconosce carenze nei servizi e l’esplosione del costo della vita, ma dice: “Non abbiamo la bacchetta magica”.
La missione italiana in Iraq
I cinque militari italiani feriti domenica in Iraq erano impegnati nella missione ‘Prima Parthica /
Inherent Resolve’, l’operazione della coalizione multinazionale contro lo Stato Islamico cui partecipano 79 Paesi e cinque organizzazioni internazionali. Il contributo italiano alla missione, iniziata il 14 ottobre 2014, comporta un impiego massimo di 1.100 militari, 305 mezzi terresti e 12 mezzi aerei. La missione prevede in particolare l’addestramento delle forze di sicurezza curde ed irachene – con il personale italiano dislocato tra Erbil, nel Kurdistan iracheno, e Baghdad -, ricognizioni aeree con i droni e attività di rifornimento di carburante in volo per la coalizione.
L’ultimo attentato contro militari italiani impegnati in missioni all’estero – sono numerose, tra Asia e Africa, da Timor alla Libia – risaliva al 30 settembre, a Mogadiscio, in Somalia, in una giornata d’attacchi coordinati condotti da al Shabaab, formazione terroristica legata ad al Qaeda: anche allora, era stato uno Ied a ferire non gravemente due soldati dell’Esercito e un carabiniere.
In Iraq, a Erbil opera personale dell’Esercito nell’ambito del ‘Kurdistan Training Coordination Center’ il cui comando è attribuito alternativamente un semestre all’Italia e uno alla Germania. Invece, a Baghdad come a Kirkuk sono impegnati gli uomini delle forze speciali, che appartengono a tutte le forze armate, con il compito specifico di addestrare i militari iracheni del ‘Counter Terrorism Service (Cts) e le forze speciali e di sicurezza curde.
Nella capitale irachena sono poi dislocati altri 90 militari nell’ambito della ‘Police task force Iraq’, che ha il compito di addestrare i poliziotti iracheni che devono operare nelle zone liberate dall’Isis.
Infine, i mezzi aerei: quattro elicotteri da trasporto Nh90 sono schierati ad Erbil, mentre in Kuwait sono di stanza i Boeing Kc 767 A, gli Eurofighters e i Predator, per rifornimento in volo e sorveglianza del territorio.
Contrariamente a quanto avveniva nel 2003, la presenza militare italiana in Iraq è oggi legittima dal punto di vista del diritto internazionale. Le forze dei vari Paesi che aderiscono alla coalizione operano in base a due risoluzioni dell’Onu: la numero 2170 del 15 agosto 2014 e la numero 2178 del 27 settembre 2014, sulla base della richiesta di soccorso presentata il 20 settembre 2014 dall’Iraq al Consiglio di Sicurezza.
L’impatto della ‘fuga’ dell’America di Trump
Difficile dire in che misura e in che modo impattino sul disordine iracheno i recenti sviluppi in Siria e gli atteggiamenti di Turchia e Stati Uniti: Recep Tayyip Erdogan conduce l’operazione anti-curdi nel Nord-Est della Siria, poi arginata dalla Russia e dal regime di Damasco; Donald Trump arretra le forze Usa stanziate in quell’area. Su AffarInternazionali, l’ambasciatrice Laura Mirachian segnala “la politica multi-vettoriale” del governo di Ankara e osserva come il presidente Erdogan, prima della visita a Washington, abbia compiuto “una serie di passi che si scostano dall’Europa – già principale direttrice della proiezione esterna turca – e volgono ad Oriente, verso Russia e Cina, poggiando sul passato ottomano e sulle numerose comunità turcofone presenti nel tragitto” verso quyei due Paesi.
Sullo stesso webzine, Alessia Chiriatti osserva che “gli Stati Uniti sono tornati sul confine del disordine, teatro dell’invasione turca iniziata il 9 ottobre scorso”, nonostante il ritiro annunciato poco prima da Trump. I soldati americani, insieme alle Forze democratiche siriane, una sigla dell’opposizione al regime di Bashir al-Assad, hanno iniziato, il 31 ottobre, i primi pattugliamenti nel nord-est del Paese, vicino ai pozzi petroliferi di Deir es-Zorz.
Prova, o almeno, indizio che l’America di Trump non è magari sensibile alle ragioni dei curdi, ma lo è al petrolio e al contenimento della presenza russa in Medio Oriente. Le operazioni vengono infatti condotte nella zona di Qahtaniyah, nella provincia di Hasakah, vicino al confine iracheno, là dove, in base agli accordi di Sochi tra Russia e Turchia, siu devono schierare truppe di Damasco insieme alla polizia militare di Mosca.
“Se dunque la sicurezza al confine nord-orientale della Siria era l’obiettivo principale” degli accordi di Sochi del 22 ottobre, “lo stesso confine – osserva la Chiriatti – è ora una zona militarmente occupata da truppe di diverse bandiere: i siriani di al-Assad; i curdi che fino a poche settimane fa mantenevano il controllo della zona; turchi e russi impegnati nei pattugliamenti per contrastare l’azione dello Ypg curdo e per la stabilizzazione della ‘safe zone’ a est dell’Eufrate; e ora di nuovo gli Stati Uniti”: un patchwork che forse non migliora la sicurezza e non dispiace all’Isis.