Le premesse erano terrificanti: “Sono totalmente pronto a distruggere rapidamente l’economia turca se i leader turchi continuano su questa strada pericolosa e distruttiva”, aveva twittato, a più riprese, con formule analoghe, Donald Trump. Ma, all’atto pratico, le misure contro la Turchia prese dall’Amministrazione statunitense non sono così devastanti: colpiscono tre ministri (difesa, interno, energia), dirigenti ed ex dirigenti del governo turco e qualsiasi persona “che contribuisca alle azioni destabilizzanti della Turchia nel Nord-Est della Siria”; un aumento dei dazi sull’acciaio sino al 50%; e uno stop ai negoziati per un accordo commerciale con Ankara da 100 miliardi di dollari.
Roba che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non sarò contento, ma neppure di dispera, anche se forse incomincia a temere di fare la fine dei generali argentini, che furono indotti dall’ubris a invadere le isole Falklands e che poi scontarono la disfatta con l’uscita di scena.
Un momento!, però: quelli avevano di fronte Margaret Thatcher, un archetipo – nel bene e nel male – di fermezza e determinazione; Erdogan ha di fronte Trump, un modello di incostanza e volubilità, capace di rimproverare ai curdi di non avere aiutato l’America nello sbarco in Normandia; e di dire “Chiunque voglia aiutare la Siria a proteggere i curdi, per me va bene, che sia la Russia, la Cina o Napoleone Bonaparte. Spero che tutti facciano bene, noi siamo a 7000 miglia di distanza”. Veramente, loro, gli americani, erano lì, proprio sul posto, con mille uomini certo meglio armati ed equipaggiati di curdi e siriani e persino dei turchi; ma se ne sono andati.
Trump non s’imbarazza di essere il colonnello Kerremans di questa guerra (Thom Kerremans comandava i caschi blu olandesi dell’Onu che nel luglio del 1995 a Srebrenica si scansarono quando i serbo-bosniaci trucidarono ottomila bosniaci). “Dopo aver sconfitto l’Isis – come se l’Isis, sul terreno, non l’avessero sconfitto i curdi, ndr -, ho fondamentalmente portato le nostre truppe fuori dalla Siria. Lasciamo che la Siria ed Assad proteggano i curdi e la propria terra e combattano la Turchia. Ho detto ai miei generali, perché dovremmo combattere per la terra del nostro nemico?”, cioè di Assad – anche se, veramente, è la terra dei curdi -.
Il presidente manda ad Ankara – con calma: ci arriverà fra qualche giorno – il suo vice Mike Pence, col nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien. Il segretario di stato Mike Pompeo chiama il suo omologo Mevlut Kavusoglu e gli illustra la posizione americana, spiega le sanzioni, denuncia il carattere “unilaterale” dell’iniziativa turca e chiede che le parti tornino al dialogo
Le decisioni di Trump suscitano imbarazzo e irritazione anche fra i senatori repubblicani, che dovranno avallare le sanzioni. Il loro leader Mitch McConnell avverte: “Ritirare le forze dalla Siria ora ricreerà le condizioni che abbiamo lavorato duro per eliminare” e farà rinascere il sedicente Stato islamico. Inoltre, Russia e Iran ne stanno già profittanso per aumentare l’influenza nell’area: “Un esito catastrofico per gli interessi strategici degli Stati Uniti”, tira le somme McConnell, finora un alleato del presidente.
Invece, il capo del Pentagono Mark Esper, che non ha la tempra del suo predecessore, il generale James Mattis, sostiene che le azioni “irresponsabili” della Turchia minano il successo della lotta contro l’Isis e danneggiano le relazioni bilaterali fra Ankara e Washington – le centinaia di vittime sul campo devono essere, per lui, “danni collaterali” d’un braccio di ferro diplomatico -. “Il rischio per le forze americane nel Nord-Est della Siria aveva raggiunto un livello inaccettabile”, aggiunge Esper: Erdogan “deve assumersi la responsabilità di un’azione impulsiva, che non era necessaria, e delle sue conseguenze, una rinascita dell’Isis, crimini di guerra, una crisi umanitaria”.
Le truppe Usa ritirate dalla Siria resteranno nella regione, in particolare nella base di Al Tanf a Sud, per monitorare la situazione e prevenire – twitta Trump – che si ripeta quanto accadde nel 2014, quando il ritiro delle truppe dall’Iraq e la sottovalutazione della minaccia dell’Isis ne favorì l’estensione in Iraq e in Siria.