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Usa: impeachment; un punto, Trump tra difesa e attacco

Scritto per La Voce e il Tempo uscito lo 03/10/2019 in data 06/10/2019 e Il Corriere di Saluzzo dello 03/10/2019. Il servizio è un collage di pezzi già comparsi su Il Fatto Quotidiano online e cartaceo.

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Insieme a tweet, impeachment è forse la parola più comune della presidenza di Donald Trump: è nell’aria dal giorno che il magnate showman s’è insediato alla Casa Bianca, anzi dalla notte che vinse le elezioni, prendendo tre milioni di voti popolari in meno della sua rivale Hillary Clinton. L’indagine sul Russiagate, cioè l’intreccio dei contatti tra la campagna di Trump nel 2016 ed emissari del Cremlino, finì in modo ambiguo, con il presidente non assolto, ma non incriminato. Ora, l’Ukrainagate appena scoppiato dimostra, se non altro, che il magnate ha il vizietto di chiedere aiutini all’estero per battere gli avversari.

E i democratici, che dopo le elezioni di midterm sono in maggioranza alla Camera, hanno lanciato, non senza dubbi ed esitazioni, la procedura d’impeachment. Che può rivelarsi una trappola, o forse un boomerang. Vediamo perché.

La trappola e il boomerang
L’impeachment è la procedura con cui il Congresso può destituire il presidente degli Stati Uniti: non è di per sé eccezionale, perché è stata avviata più volte nella storia dell’Unione  (e molto più spesso è stata evocata), ma la sua peculiarità è che non è mai andata in porto. Nell’ ‘800 Andrew Johnson, il successore di Abraham Lincoln, ne scampò d’un soffio; come ne scampò Bill Clinton vent’anni fa; e, tecnicamente, ne scampò pure Richard Nixon, perché si dimise prima di subirlo.

Dunque, è una strada che si può imboccare, ma che non è affatto sinonimo di successo. Per di più, nell’attuale assetto politico degli Stati Uniti, mettere sotto procedura Trump è possibile, intrecciando quanto emerso nel Russiagate e quanto sta cominciando ad emergere nell’Ukainagate: la decisione di sottoporre il presidente a impeachment spetta alla Camera, dove i democratici sono maggioranza. Ma il giudizio spetta al Senato, dove ci vogliono i due terzi dei voti e dove i repubblicani sono maggioranza (e allo stato non c’è segnale che venti di essi possano mollare il presidente in carica).

Questa è la trappola: Trump, con i suoi comportamenti al limite del lecito, e magari oltre il limite, che gli vengono naturali, induce i democratici all’impeachment e ne esce assolto. Ma ci sono altre due considerazioni boomerang. La prima è che la scelta dell’impeachment, con dossier d’accusa labili, almeno finora, crea intorno al presidente, che già se n’ammanta, un alone di – diremmo noi – ‘fumus persecutionis’ e ne fa una vittima dei ‘politicanti’, che non riescono a batterlo alle urne e provano a farlo fuori con i cavilli.

La seconda è che tutta ‘sta attenzione intorno a Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama, il bersaglio dell’Ukrainagate, può favorirne la nomination democratica alla Casa Bianca, creandogli pure intorno un ‘fumus persecutionis’; e facendo passare il messaggio che Trump lo teme e cerca d’azzopparlo. E, invece, se c’è un candidato che lo showman sarebbe contento di trovarsi di fronte, il 3 novembre 2020, è proprio Sleepy Joe, più vecchio di lui, più establishment di Hillary e lento a cogliere al balzo nei dibattiti la palla della battuta (lì dove Donald è fortissimo).

Se l’impeachment va avanti, ma non arriva in porto, i democratici si troveranno con un presidente perseguit(at)o e assolto, rafforzato dal clima di persecuzione che già crea, “la ‘caccia alle streghe’ più grande mai allestita”, e con un candidato un po’ ‘passato’, una brava persona, che non mobilita né la sinistra né le minoranze. Tutti gli altri aspiranti alla nomination sono pro-impeachment, ma senza fervore; e c’è chi ipotizza che la vicenda riporti a galla una candidatura di Hillary.

Nell’America fortemente polarizzata di questa stagione politica, l’impeachment apre un nuovo spartiacque, che può spaccare i due campi, più profondamente quello democratico, più marginalmente quello repubblicano. Anche se uno studio afferma che i cittadini americani sono meno divisi delle loro istituzioni, mai così conflittuali dai tempi della Guerra Civile, un secolo e mezzo fa.

La talpa e l’ammiraglio
Per il momento, siamo all’inizio della storia. Che Nancy Pelosi, speaker della Camera, e leader dell’opposizione democratica, vuole scrivere in fretta: obiettivo, decidere il rinvio a giudizio, o meno, di Trump, entro il mese, al massimo entro novembre. Avviata con l’audizione in Congresso del capo dell’Intelligence Usa, l’ammiraglio Joseph Maguire, l’istruzione della procedura d’impeachment procederà con altre testimonianze: della talpa che ha fatto scoppiare il nuovo caso, forse dell’avvocato del presidente Rudy Giuliani, certo di altri testi. “Ci muoveremo rapidamente, ma non avventatamente”, dice la Pelosi: bisogna andarci con i piedi di piombo, evitare passi falsi.

La deposizione di Maguire e il rapporto della talpa – un agente della Cia, ora messo sotto protezione – hanno più ‘pepe’ dell’audizione scipita sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller, svoltasi a fine luglio. Nella sua denuncia, la talpa scrive: “Ho avuto notizia da elementi del governo che il presidente sta usando il suo potere per sollecitare interferenze di un Paese straniero nel voto del 2020″.

Il rapporto risale al 12 agosto: il documento faceva scattare l’allarme sulla telefonata del 25 luglio tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelinsky. Il magnate chiese al leader ucraino “d’indagare su uno dei suoi maggiori rivali politici”, Biden, attuale battistrada nell’affollata corsa alla nomination democratica a Usa 2020: “Fammi il favore: indaga su Joe Biden e suo figlio”, Hunter, in affari con una società energetica ucraina, queste le parole del magnate presidente. Poco prima della telefonata ‘galeotta’, il presidente ordinò di sospendere aiuti all’Ucraina per 391 milioni di dollari: uno strumento di pressione, se non di ricatto.

La Casa Bianca cerca di smontare l’impatto del rapporto: “Informazioni di terza mano”. E Trump equipara la talpe a delle spie: “Andrebbero punite”. Lo 007 ammette di non essere testimone diretto di tutte le informazioni fornite. In nove pagine, inviate ai presidenti delle Commissioni Intelligence di Camera e Senato, cioè Adam Schiff e Richard Burr, l’agente riferisce che dopo quella telefonata “funzionari della Casa Bianca intervennero” per bloccare e mettere in sicurezza “le informazioni sulla chiamata, soprattutto la trascrizione parola per parola. Azioni che a mio avviso evidenziano che avevano capito la gravità di quanto emerso nella conversazione”.

La talpa, che ha una decina di fonti, prosegue: “Ho ritenuto i racconti dei miei colleghi credibili perché, in diversi casi, altri responsabili hanno riportato ricostruzioni in linea con le loro”. Così, “funzionari della Casa Bianca mi hanno detto di aver ricevuto dai legali della Casa Bianca istruzioni di rimuovere la trascrizione elettronica dal sistema computerizzato in cui documenti simili sono solitamente conservati”. “La trascrizione è stata quindi caricata su un sistema elettronico separato usato per la raccolta di informazioni riservate di natura particolarmente sensibile”. Un funzionario ha descritto questa azione “come un abuso del sistema elettronico in quanto la telefonata non conteneva nulla di sensibile dal punto di vista della sicurezza nazionale”.

Maguire, che deve pure giustificare perché il rapporto della talpa non abbia tempestivamente ricevuto l’attenzione che meritava e sia di fatto rimasto insabbiato per settimane, difende l’intelligence. “Nessuno può essere al di sopra della legge”, dice al Congresso, echeggiando, s’ignora se volontariamente, le parole con cui la Pelosi motiva la scelta dell’impeachment. Per l’ammiraglio, la denuncia è “unica e senza precedenti”: “La talpa ha agito in buona fede, senza alcuna motivazione politica, ha fatto la cosa giusta”: era seriamente preoccupato per “gli abusi di potere” di Trump, per conto del quale Giuliani incontrò a più riprese, a Madrid e altrove, emissari del presidente ucraino, un attore prestato alla politica dopo avere fatto il presidente in una fiction tv. Anche il segretario alla Giustizia William Barr, un fedelissimo dell’inquilino della Casa Bianca, si diede da fare.

Saltano fuori altre conversazioni analoghe del magnate e showman con leader stranieri: all’australiano Scott Morrison, e forse pure a interlocutori italiani, Trump chiese di aiutarlo a fare luce sulle origini del Russiagate, dando credito a teorie cospiratorie nonostante i suoi collaboratori e l’intelligence gliele smentissero.

Gli echi internazionali
Adesso, tutti i leader avranno paura di parlare con Donald Trump, al telefono o di persona: primo, devono evitare di restare coinvolti in qualche sua ‘proposta indecente’; secondo, sono preoccupati che il contenuto della conversazione venga reso pubblico per qualche inghippo di politica interna degli Stati Uniti. Il segnale d’allarme l’ha azionato il Cremlino: i colloqui tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo Usa “devono restare classificati”. Il portavoce russo Dmitry Peskov definisce la pubblicazione della telefonata tra Trump e Zelensky “una pratica insolita”. “Vorremmo sperare che non ci capitino cose del genere: le nostre relazioni bilaterali hanno già problemi abbastanza seri”.

Le preoccupazioni del Cremlino non sono probabilmente in cima alla lista dei pensieri di Trump, che difende il suo operato, attacca i suoi critici, dice “siamo in guerra” – con chi? – e sta cercando un’ ‘arma di distrazione di massa’ per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica. L’immigrazione e la politica estera sono fonti d’ispirazione e l’Iran gli offre uno spunto: “Teheran mi chiede di togliere le sanzioni, ma io dico no”.

Nel merito, la Russia, la Cina, Ue s’astengono dai commenti: E’ un affare interno, dicono all’unisono i portavoce. Pure Zelensky, che la settimana scorsa ha incontrato Trump a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si chiama fuori: l’indagine sulla Burisma, la società cui era associato Hunter Biden, è uno dei tanti casi di cui si parla nei colloqui con leader stranieri e lui non ne conosce i dettagli; “Lasciamo indagare il procuratore generale”, dice.

La Casa Bianca avrebbe saputo del rapporto poco tempo dopo la telefonata ‘incriminata’. La talpa s’è prima rivolta al legale della Cia con un processo anonimo, poi ha presentato la propria denuncia. E per settimane l’Amministrazione si sarebbe affannata nel tentativo di tenere il presidente al riparo dai suoi propri errori. L’esposto tira in causa dei funzionari del Dipartimento di Stato: tra la dozzina di figure dell’Amministrazione che il 25 luglio ascoltarono la telefonata tra Trump e Zelensky, c’erano Kurt Volker, l’inviato speciale Usa in Ucraina, che s’è subito dimesso, Gordon Sondland, l’ambasciatore presso l’Ue, e Ulrich Brechbuhl, consigliere legale del Dipartimento di Stato, amico dai tempi di West Point del segretario di Stato Mike Pompeo – insieme fondarono la Thayer, una società aerospaziale –. Pompeo difende i suoi collaboratori, che – dice – lavoravano a sostegno dell’Ucraina contro l’influenza russa crescente. Ma il segretario di Stato potrebbe finire impaniato nell’inchiesta.

Il senatore dello Utah Mitt Romney, uno di quelli che dovrebbe essere giudici del presidente, ritiene la vicenda “molto preoccupante”. Ma Romney guida da sempre l’ala repubblicana anti-Trump e c’è chi lo vede candidato repubblicano alla Casa Bianca, come già nel 2012, se il presidente finisse fuori gioco.

 

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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