Nei film, i poliziotti che negoziano con i delinquenti che tengono in ostaggio innocenti malcapitati fanno sempre un figurone: dall’agente Eugene Moretti, alias Charles Durning, di Quel pomeriggio di un giorno da cani, al tenente quasi in pensione Frank Grimes, alias Robert Duval, di John Q. Fa un po’ eccezione Il Negoziatore con Kevin Spacey e Samuel L. Jackson, ma è fuori contesto. Finora, però, nessun negoziatore di ostaggi era stato elevato a consigliere per la sicurezza nazionale (Nsc) degli Stati Uniti: il primo ad arrivarci è l’avvocato Robert Charles O’Brien, promosso a quel ruolo dal presidente Donald Trump. Fino a mercoledì, era il negoziatore in capo del Dipartimento di Stato per le prese di ostaggio, pur continuando ad esercitare nello studio Larson O’Brien di Los Angeles.
Fra i suoi clienti, l’astronauta Buzz Aldrin, l’ ‘eterno secondo’, quello che calpestò il suolo lunare subito dopo Neil Armstrong; e poi si mise a cercare l’arca di Noé.
Californiano di nascita, cattolico di formazione – studiò al liceo Cardinal Newman di Santa Rosa -, O’Brien si convertì alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, cioè si fece mormone, quando aveva vent’anni. Oggi, è il mormone, oltre che il negoziatore, di rango più elevato nell’Amministrazione federale. Ma questa sarebbe tutta un’altra storia se Mitt Romney avesse vinto le presidenziali 2012, quando Barack Obama non gli cedette la Casa Bianca.
Adesso, a Washington c’è già chi scommette su quanto durerà O’Brien, in quello che è finora stato il posto più ‘ballerino’ dell’Amministrazione Trump: il primo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, durò poche settimane, travolto già il 13 febbraio 2017 dal Russiagate, che lo costrinse alle dimensioni e che tuttora lo inguaia con i figlio in diatribe con la giustizia.
Poi toccò a un altro generale, H.R.McMaster, che ha resistito 15 mesi, fino al maggio 2018. Quindi a un diplomatico, John ‘dottor Stranamore’ Bolton, che, al confronto, il militare più guerrafondaio è un pacifista: lui ha resistito 18 mesi, mai davvero in sintonia con il suo boss, su Iran, Afghanistan, Corea, Venezuela. Ora ecco l’avvocato, che statisticamente – mancano 16 mesi – ha qualche chances di arrivare a fine mandato, cioè alla fine del primo mandato del magnate presidente. Non s’erano mai viste tante rotazioni in quel posto.
Su twitter, Trump scrive: “Ho lavorato a lungo e duramente con Robert. Farà un grande lavoro!”. E’ sempre così: quando li sceglie, sono degli assi; quando li caccia, lo hanno deluso. Con O’Brien, Trump ha gestito la liberazione in Turchia del reverendo evangelico Andrew Brunson (non proprio un ostaggio, ma un ospite delle galere di Erdogan), di un ingegnere petrolifero rapito nello Yemen, di americani arrestati in Corea del Nord.
O’Brien condivide con il presidente l’approccio reaganiana: “La pace attraverso la forza”; questo ne fa “un mezzo falco” e potrebbe aiutarlo a restare in sella.
L’inizio non è facile, per l’avvocato negoziatore: la gamma di opzioni allo studio del Dipartimento di Stato nei confronti dell’Iran, dopo gli attacchi di una settimana fa alle installazioni petrolifere saudite, va dalla ritorsione militare (che il presidente vuole evitare, perché l’azione non ha ucciso né coinvolto cittadini americani) all’incontro tra Trump e il presidente iraniano Hassan Rohani, che sarà a New York la prossima settimana per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
O’Brien, che di esperienza di gestione ne ha pochina, deve fornire il suo parere. La mancanza d’esperienza è certo un handicap nel valutare le vicende, ma non lo è nel rapporto con Trump, che, più che consigli, cerca conferme alle sue opinioni (e litiga con chi non gliele fornisce).
Cinquantenne, l’avvocato consigliere lavorò negli Anni Novanta nell’ufficio dell’Onu a Ginevra che s’occupava delle compensazioni di guerra conseguenti all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e ha svolto incarichi per Amministrazioni repubblicane e democratiche, con Bush jr, Obama e Trump. Fu consulente delle campagne elettorali di Romney e, nel 2016, del governatore del Wisconsin Scott Walker e del senatore del Texas Ted Cruz, che entrambi contesero senza successo la nomination a Trump.