I vati della democrazia diretta lo stanno teorizzando: il voto non serve, basta un clic per esprimere l’orientamento dell’opinione pubblica; e i governanti diventano esecutori della volontà dei cittadini, che fluttua allo stormire dei tweet. Addio visioni, benvenute pulsioni. E chi vota pare fare di tutto per dar loro ragione: sempre più spesso, le elezioni non risolvono le incertezze, non forniscono maggioranze e il loro sbocco non è un governo stabile, ma solo nuove elezioni.
Il voto, ormai, determina solo là dove non ci sarebbe neppure bisogno di tenerlo, tanto il risultato è noto e scontato a priori: in Cina, in Russia, nelle ‘satrapie’ mediorientali. O dove si sceglie un capo e poi per un certo tempo lui governa, che abbia o non abbia la maggioranza in Parlamento: succede negli Stati Uniti, in Francia, in Brasile. Il presidente può essere il peggior soggetto di questa Terra, ma una volta che lo hai eletto te lo tieni, salvo impeachment o equivalenti.
La riflessione sulla vanità del voto coincide con le elezioni in Israele, le seconde in sei mesi (e non è affatto detto che queste rendano più facile formare un governo). E la Spagna offre un altro esempio: il voto, già anticipato, del 28 aprile non ha prodotto una chiara maggioranza alle Cortes e 150 giorni di negoziati politici non hanno sbloccato lo stallo. E’ imminente la convocazione di nuove elezioni, sperando che sia la volta buona.
Pure la Gran Bretagna della Brexit porta acqua al mulino della tesi: il voto anticipato dell’8 giugno 2017 doveva consolidare la maggioranza di Theresa May e consentirle di realizzare la Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea decisa con un referendum il 23 giugno 2016. Invece, la sua maggioranza uscì indebolita e lei continuò a governare solo grazie a un partito nord-irlandese, il Dup, formazione unionista della destra protestante, che, con i suoi tre deputati, per la prima volta divenne decisivo nel sostegno a un governo britannico.
In queste condizioni, la May non riuscì a convincere i Comuni ad approvare l’accordo negoziato con l’Ue per una Brexit concordata e dovette passare la mano a Boris Johnson, che ora non può ottenere dai Comuni l’avallo a una Brexit ‘no deal’. Il ricorso alle urne anticipato è un’opzione; che serva, non è affatto detto.
Ci sono poi Paesi come il Belgio, l’Olanda, di recente la Svezia, dove le elezioni politiche fanno spesso da prologo a estenuanti negoziati fra i partiti per la formazione di una maggioranza, anche perché, dove vige il sistema proporzionale, la volontà popolare si frammenta fra molte formazioni. Il Belgio detiene il record mondiale di durata d’una trattativa per formare un governo: il Paese, dopo le elezioni del giugno 2010, rimase per 535 giorni senza un Esecutivo con pieni poteri, battendo il primato dell’Iraq dopo l’invasione e con la difficoltà di mettere insieme distinguo politici, etnici e religiosi, oltre che gli strascichi d’un conflitto.
Il governo in carica per gli affari correnti, retto da Yves Leterme, cristiano-democratico fiammingo dal nome francese, se la cavò benissimo: gestì un semestre di presidenza del Consiglio dell’Ue, decise il coinvolgimento del Belgio nelle operazioni militari in Libia, varò una finanziaria, nazionalizzò la principale banca del Paese, migliorò gli indicatori economici, dal debito al pil, nonostante fossero gli anni della crisi più dura.
La storia sta ripetendosi, perché il Belgio ha unificato le politiche alle europee il 26 maggio e non ha ancora un nuovo governo. Il premier in carica resta Charles Michel, che il 1 novembre diventerà presidente del Consiglio europeo. Per quella data bisognerà almeno trovare un nuovo premier, forse la prima donna premier belga, Sophie Wilmès, in attesa di concordare un nuovo governo.
Il Belgio ha in qualche misura contagiato la Svezia: ci sono voluti oltre quattro mesi dopo il voto del settembre 2018 per formare un governo per di più di minoranza: premier è il socialdemocratico Stefan Lovfen, con l’appoggio dei verdi, l’astensione di due partiti di centro-destra e l’appoggio, caso per caso, dei comunisti. Minimo comune denominatore, la volontà di tenere lontano dal potere l’estrema destra dei Democratici svedesi.
C’è poi il caso di quando la gente vota male e si rifà: accadde in Algeria, in Palestina, in Egitto (e finì male). E’ accaduto, più di recente, a Istanbul (e lì è finita bene). Ma queste sono altre storie.