‘No deal‘ or ‘not no deal’? Rotolerà prima la testa della Gran Bretagna fuori dalla cesta dell’Ue?, o la testa di Boris Johnson fuori dal portone al n.10 di Downing Street? Le elezioni anticipate, che appaiono inevitabili dopo gli ultimi sussulti della politica britannica, potrebbero significare sia la Brexit senza accordo sia l’uscita di scena del premier giunto al potere dopo avere indebolito in tutti i modi Theresa May.
Alla guida del governo da luglio, Boris Johnson ha preso iniziative pericolose per la democrazia, ulceranti per l’opinione pubblica e divisive per il suo stesso partito. E ora il premier, che vuole chiudere il Parlamento, per potere fare la Brexit entro il 31 ottobre, con o più probabilmente senza un accordo, affronta la piazza – decine di manifestazioni domenica, a Londra e ovunque nel Regno, contro la sua idea di serrata dei Comuni – e la sommossa di oltre una ventina di deputati tories, decisi a votare con l’opposizione una risoluzione che vieti al governo una Brexit ‘no deal’.
Tutto deve farsi in fretta, nei prossimi giorni, perché la decisione di chiudere Westminster, annunciata il 28 agosto e avallata dalla Regina Elisabetta II – una formalità –lascia ai deputati tempo solo fino a metà settembre per sventare i piani di Johnson di portare, qualunque cosa accada, la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea entro il 31 ottobre. La mossa del premier è denunciata dall’opposizione come antidemocratica e avvelena il clima nel partito conservatore.
Johnson continua a sostenere che un accordo con l’Ue migliore di quello confezionato dalla May, e sempre respinto dai Comuni, è possibile. Ma da Bruxelles e dalle capitali dell’Unione non vengono segnali di cedimento, E gli economisti insistono ad ammonire che lasciare l’Ue senza un’intesa potrebbe avere un impatto caotico su finanza e commerci. Fuori dal Regno unito, il presidente Usa Donald Trump incoraggia le intemperanze del premier.
Arrivato alla guida della politica britannica con un’aria da “tonto smarrito”, Jonhson ha confermato, con la sua mossa, di essere “un tattico spietato” – i giudizi sono del New York Times -. Ma, come è già successo in Italia, anche in Gran Bretagna il disinvolto populismo del leader euro-scettico potrebbe rivelarsi un boomerang.
Martedì 3 settembre, una giornata cruciale
La giornata di martedì 3 settembre è stata cruciale. Come altre volte, ci affidiamo alla ricostruzione di Alessandro Logroscino, il corrispondente dell’ANSA, sempre attento e acuto: “La resa dei conti sulla Brexit fra il Parlamento e un governo ormai privo di maggioranza aritmetica porta a un passo dalle lezioni anticipate. La crisi s’infiamma, sull’onda della sconfitta del premier ai Comuni, certificata dal crollo della sterlina, precipitata ai minimi da tre anni”.
La ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva – e prima della contestata sospensione – trasforma Westminster in un’arena: Johnson deciso a sfidare i contestatori in modo provocatorio; e gli oppositori, spalleggiati da una pattuglia irriducibile di tories ribelli ostili alla Brexit a tutti i costi, capaci di battere il governo su una mozione per strappare il controllo del calendario all’esecutivo e mettere ai voti una legge ‘anti-no deal’ studiata per provare a ottenere dall’Ue l’ennesimo rinvio sull’uscita del Regno Unito.
Il voto sulla mozione, approvata alla fine con 328 sì contro 301 no, ha avuto un effetto esplosivo, con l’annuncio immediato per tutta risposta della presentazione d’una mozione per lo scioglimento della Camera e la convocazione delle urne: mozione che avrà bisogno di un quorum dei due terzi e quindi di un via libera delle opposizioni, disponibili a darlo – dice il leader laburista Jeremy Corbyn – solo dopo l’approvazione del testo ‘anti-no deal’ e della sua firma da parte della regina. Ossia non prima della prossima settimana.
Il voto serale era stato preceduto nel pomeriggio da un dibattito surriscaldato, che aveva coinciso con l’annuncio della defezione dal gruppo conservatore dell’ex viceministro Philip Lee, convinto anti-Brexit. Il suo passaggio ai LibDem della giovane neoleader europeista Jo Swinson ha decretato il rovesciamento dei rapporti di forza a Weestminster: la coalizione ‘tories e unionisti nordirlandesi’ del Dup scendeva a 309 deputati e l’insieme di tutte le forze d’opposizione saliva a 310. Ciò non comporta di per sé la caduta del governo, fino a un eventuale esplicito voto di sfiducia, ma sancisce una situazione di anarchia parlamentare. Partita aperta e colpi di scena probabilio
A fine giornata, i ribelli conservatori che hanno votato contro la linea del governo sono stati 21: sono stati espulsi ‘ipso facto’ dal gruppo parlamentare tory, un provvedimento personalmente preannunciato a ciascun dissidente dal capogruppo conservatore Mark Spencer. Fra i 21 spiccano l’ex ministro Ken Clarke (79 anni, l’attuale Father of the House per anzianità parlamentare) e altri ex ministri come Philip Hammond, Dominic Grieve o Justine Greening e pure Nicholas Soames, 71 anni, nipote di Winston Churchill; fuori anche Rory Stewart, effimero astro nascente dei tories più eurofili e già titolare del dicastero della Cooperazione Internazionale nel governo May, candidatosi nei mesi scorsi senza successo contro lo stesso Johnson nella corsa per la leadership del partito. L’esclusione dai ranghi del gruppo comporta quella dalle candidature per le prossime elezioni.
Questo è il nuovo scenario dello scontro trasversale sulla Brexit. La mossa del fronte del no è quella della legge ‘anti-no deal’ firmata dal laburista Hilary Benn con il sostegno del leader del suo partito, Corbyn, e di esponenti di tutte le minoranze, oltre che dei dissidenti conservatori. L’iter prevede una triplice lettura di fronte alla Camera bassa: una corsa a ostacoli per la quale Corbyn, Benn e tutti i firmatari contano d’avere ora i numeri.
Ma Johnson è già pronto a reagire: indisponibile, come ha detto e ripetuto, a “implorare” qualsiasi ulteriore proroga “senza senso” ai 27 oltre il 31 ottobre; e deciso ora a ridare la parola “al popolo”. Il veto ‘anti-no deal’ è ai suoi occhi un’iniziativa controproducente, che “distrugge” il tentativo, apparentemente velleitario, di riaprire il negoziato con Bruxelles per un accordo depurato “dall’antidemocratico backstop” sul confine irlandese. “La legge della resa di Corbyn” è – sono parole del premier – una “bandiera bianca” da sventolare per tradire il referendum del 2016. Pronta la replica di Corbyn: quello di Johnson “è il governo della codardia”, che “attacca la democrazia” per imporre “uno sconsiderato” divorzio hard: un governo che “non ha il mandato popolare, non ha la credibilità morale e, ora, non ha neppure la maggioranza”.
Il clima è quello della retorica delle decisioni irrevocabili, con tanto di richiamo all’anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale evocato da Johnson. I toni sono da muro contro mur e innescano la partita sullo scioglimento della Camera e sulle elezioni. Un’opzione che a Corbyn “sta bene”, ma che le forze d’opposizione al premier intendono fare passare solo alle loro condizioni e con i loro tempi: convocare le urne il 14 ottobre senza avere prima approvato la legge ‘anti-no deal’ espone al rischio di una Brexit di default senza accordo il 31 ottobre. …