Il Brasile di Luis Inacio Lula da Silva continua a fare i conti, politici e giudiziari, con il suo passato. Ma il Brasile di Jair Messias Bolsonaro deve fare i conti con il proprio presente e, dai punti di vista della tutela della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali, fanno molta più fatica a tornare. Le cronache di questi giorni sono un intreccio di informazioni contraddittorie: ne emerge il sospetto che la giustizia sia stata pilotata contro Lula, presidente per due mandati dal 2003 al 2011 e ora detenuto in carcere (sconta una condanna per corruzione a 12 anni, che gli ha impedito di candidarsi alle presidenziali dello scorso anno e di vincerle), e che sia ora pilotata per proteggere il suo grande accusatore, il giudice Sergio Moro, nel frattempo divenuto ministro della Giustizia.
Ieri, però, il presidente della Corte suprema brasiliana, Gilmar Mendes, ha vietato indagini, da parte di organi investigativi o amministrativi, avviate per verificare come il giornalista Glenn Greenwald abbia ottenuto documenti attribuiti ad autorità pubbliche e divulgati dal sito The Intercept Brazil. Mendes ha così accolto una istanza del partito Rede Sustentabilidade, secondo cui le indagini contro il giornalista, che avrebbero già condotto all’arresto di hacker, lederebbero la libertà di stampa.
La decisione, di cui dà conto O Globo, mira a proteggere la riservatezza della fonte giornalistica, garantita dalla Costituzione. Il sito di Greenwald pubblica da settimane i contenuti di conversazioni tra i pm dell’inchiesta Lava Jato, la madre delle indagini per corruzione in Brasile, e l’allora giudice di primo grado Sergio Moro. I testi suggeriscono una parzialità di Moro nei procedimenti giudiziari e nelle sentenze emesse contro l’ex presidente Lula. Ma per Bolsonaro, che non esista a interferire nelle inchieste con le sue dichiarazioni, il giornalista è un fuorilegge. E i sondaggi dicono che Moro e il presidente vedono la loro popolarità salire: un po’ quel che avviene in Italia, dove la tracotanza premia.
Greenwald, 52 anni, è un avvocato e giornalista di New York, che acquisì notorietà internazionale nel 2013, quando pubblicò su The Guardian una serie di articoli basati su informazioni fornite da Edward Snowden, una talpa dell’intelligence statunitense rifugiatasi prima a Singapore e da anni ormai a Mosca. I pezzi di Greenwald valsero al giornale il Pulitzer 2014 per il miglior giornalismo di servizio pubblico. Successivamente, Greenwald fondò con Laura Poitras e Jeremy Scahill il sito The Intercept: da allora, il giornalista, che vive in Brasile, a Rio de Janeiro, con il suo partner David Michael Miranda, continua a essere un protagonista dell’informazione internazionale: oggi si dice “conscio” dei rischi che corre.
La decisione della Corte suprema sul ‘caso Greenwald’, ma è forse meglio dire sul ‘caso Moro’, coincide con quella di un tribunale federale che ha sospeso il trasferimento dell’ex presidente Lula dal carcere di Curitiba a un carcere dello Stato di San Paolo. L’ordine, dato mercoledì da un giudice dello Stato del Paranà, stabiliva che Lula lasciasse la cella speciale del commissariato di Curitiba per trascorrere i suoi otto anni e dieci mesi restanti di detenzione in una prigione di Tremembé, circa 150 chilometri da San Paolo. Lì, sono rinchiusi noti criminali, molti dei quali con i loro reati hanno scosso l’opinione pubblica del Paese. Ora, Lula potrà restare a Curitiba, almeno fin quando una richiesta di scarcerazione depositata dai suoi legali non sia stata esaminata.
L’ex giudice e attuale ministro Moro, il grande accusatore dell’ex presidente ed ex sindacalista, respinge le accuse di avere manipolato l’inchiesta giudiziaria. Ma intanto il presidente Bolsonaro deve fare fronte alle critiche interne anche sul fronte ambientalista. L’ex candidata alla presidenza Marina Silva, la principale leader verde brasiliana, l’accusa di manipolare i dati sulla deforestazione dell’Amazzonia e denuncia “il grave problema del disboscamento illegale e della corruzione che comporta l’appropriazione di terre pubbliche”. La Silva è stata ministro dell’Ambiente quando Lula era presidente ed è una strenua paladina della conservazione dell’Amazzonia, dove è nata e dove lavorò come ‘seringueira’, cioè come estrattore di gomma dal caucciù.
La deforestazione dell’Amazzonia è uno dei capitoli ‘criminali’ del programma con cui Bolsonaro ha vinto le elezioni. Il fenomeno è evidente dalle osservazioni satellitari: ogni minuto si spazza via l’equivalente di un campo di calcio. La foresta è il principale polmone verde del pianeta: ha infatti la capacità di assorbire più anidride carbonica di quanta ne produca. Stando ai dati forniti giorni fa dall’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais, Inpe), e citati da Pietro Mattonai su AffarInternazionali.it, nella prima metà di luglio sono stati cancellati oltre mille chilometri quadrati di Amazzonia, il 70% in più della superficie distrutta lo scorso anno nell’intero mese.
Bolsonaro persegue “l’obiettivo di trasformare il bacino amazzonico da polmone verde del mondo a hub produttivo, senza troppo curarsi troppo delle popolazioni indigene, che nella foresta vivono, e degli effetti globali di una rapida contrazione della superficie verde dell’Amazzonia”. Contro di lui, si profila un antagonista più scomodo dei giudici, della Silva e del ricordo di Lua: il 3 ottobre, papa Francesco ospiterà in Vaticano rappresentanti delle comunità locali di laici e credenti per il Sinodo sull’Amazzonia. Un appuntamento che, al di là del valore religioso, avrà un importante significato (geo)-politico per il Brasile (e non solo).