La pistola fumante, Robert Mueller non l’aveva con sé e non l’ha poggiata sul banco dei testimoni. Ma Donald Trump ha poco da rallegrarsi dell’audizione al Congresso dall’ex procuratore speciale del Russiagate, l’intreccio di contatti tra la campagna del magnate nel 2016 ed esponenti russi.
L’ex magistrato inquirente ripete al Congresso quello che aveva già detto lasciando l’incarico (e correggendo la lettura difensiva del suo rapporto finale fatta dal Dipartimento della Giustizia). Mueller afferma: “Il mio rapporto non scagiona totalmente Trump … il presidente potrà essere incriminato alla fine del mandato”.
Ma l’incriminazione che conta, che potrebbe costargli la Casa Bianca, cioè l’impeachment, non è affare della magistratura: è affare della politica. E i democratici devono ancora decidere, o capire, se l’impeachment è la via giusta per riconquistare la presidenza o se rischia di divenire un boomerang.
Il magnate presidente denuncia, a priori, l’attacco “illegale e sovversivo” portatogli dai democratici e crea una cortina di sbarramento di tweet prima che Mueller parli, sfidandolo, fra l’altro, a negare d’avergli chiesto la direzione dell’Fbi – l’ex procuratore lo smentirà: “Ne abbiamo parlato prima che io assumessi l’incarico d’indagare sul Russiagate e io non ero candidato” -.
“Non la seguirò”, aveva detto Trump dell’audizione; “magari solo un po’”, s’era poi corretto. Ieri, sulla sua agenda, non c’era nessun impegno per tutto il tempo riservato alla testimonianza, e cioé fino alle 14.40, le 20.40 in Italia. Quando l’audizione è ancora in corso, il magnate rilancia un tweet di Chris Wallace, un commentatore della Fox: “E’ stato un disastro per i democratici e un disastro per la reputazione di Mueller”. La Casa Bianca parlerà più tardi di “imbarazzo epico per i dem”.
L’audizione dell’ex procuratore, che non è all’esordio davanti al Congresso, e che si presenta prima davanti alla commissione Giustizia della Camera per tre ore e poi a quella Intelligence, comporta una novità procedurale che fa discutere: Aaron Zebley, braccio destro di Mueller, viene autorizzato a sederglisi accanto e a dargli consigli, senza però avere lo statuto di testimone, cioè senza potere rispondere direttamente alle domande. La presenza di Zebley irrita Trump, perché – parole sue – “consente a un investigatore ‘never Trump’ di aiutare Mueller a testimoniare davanti al Congresso. Che vergogna per il nostro sistema. Mai sentito prima. Molto ingiusto, non dovrebbe essere permesso. Una corrotta caccia alle streghe!”. Non c’è però prova che Zebley abbia mai aderito
al movimento anti-Trump né che abbia fatto donazioni al partito democratico.
Con Zebley a fianco, Mueller conferma che Mosca interferì in modo “ampio” e “sistematico” nella campagna 2016 e cercò di condizionare le elezioni presidenziali, perché credeva di trarre beneficio dalla vittoria del magnate, ma ribadisce di non avere trovato prove sufficienti d’una cospirazione di Trump con i russi, sottolinenando la differenza tra cospirazione e collusione (“che non è – precisa – un termine giuridico”).
Infatti, le ombre che pesano sul presidente sono soprattutto legate all’ostruzione alla giustizia, cioé ai tentativi che Trump avrebbe compiuto di impedire o di frenare le indagini – lo avrebbe esplicitamente chiesto al direttore dell’Fbi James Comey, che si rifiutò di farlo e venne licenziato -. Su questo punto, il rapporto non ha mai escluso che il presidente non sia responsabile: Mueller ripete parola per parola quanto già detto a maggio, cioè che, “nonostante dieci potenziali istanze d’ostruzione della giustizia”, “in base alle linee guida del Dipartimento della Giustizia (che vietano d’incriminare un presidente in carica, ndr), abbiamo deciso di non decidere se il presidente abbia o meno commesso un crimine”.
Mueller ricorda che Trump rifiutò di farsi interrogare, ma precisa di non avere mai incontrato personalmente ostacoli nelle sue indagini. E conferma che il presidente tentò di proteggersi chiedendo al suo staff di falsificare documenti rilevanti per l’indagine, compresa una richiesta dell’allora avvocato della Casa Bianca Donald McGahn, cui aveva chiesto il siluramento di Mueller. McGahn è uno dei legali che hanno lasciato la Casa Bianca, nel corso dell’inchiesta.