Cento giorni e, il 31 ottobre, la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione europea: 40 mesi dopo il referendum, Brexit sarà. Il programma di Boris Johnson, da martedì 23 leader tory e da mercoledì 24 premier britannico, è racchiuso in tre imperativi: “Fare la Brexit, unire il Paese, sconfiggere Jeremy Corbyn”, il leader laburista. Sintetico da dire, più complesso da fare: la Brexit non è una decisione solo sua – lui è pronto ad attuarla senza accordo con l’Ue, ma un voto dei Comuni glielo impedisce -; l’unità del Paese passa per l’unità dei conservatori, che l’hanno scelto bene, con due terzi dei voti – un terzo al suo rivale Jeremy Hunt -, ma che non gli sono tutti amici; e il ricorso alle urne, prima o dopo la Brexit, sarà un azzardo, perché i conservatori sono usciti al minimo storico dalle elezioni europee, che non fanno testo, ma danno il polso della gente.
Con una rapidità che contrasta con la farraginosità del meccanismo di scelta, il nuovo leader tory ha assunto, il 24, anche la guida del governo, dopo che Theresa May ha finalizzato le dimissioni, annunciate il 24 maggio, nelle mani della regina Elisabetta II. Johnson è stato convocato a Buckingham Palace, e incaricato dalla sovrana di formare un nuovo governo; e ha fatto il suo ingresso al numero 10 di Downing Street, la residenza del premier. Nelle ore dell’insediamento, diversi esponenti di primo piano del partito conservatore gli hanno però ricordato che i piani d’una Brexit ‘hard’ lo pongono in rotta di collisione con il Parlamento; e ministri uscenti come Philip Hammond, David Gauke e Rory Stewart si sono dichiarati non disposti a fare parte del suo governo.
Nel discorso della vittoria dopo la conta dei voti, Johnson ha puntato sulla volontà di portare il Regno Unito fuori dall’Unione europea entro il 31 ottobre, ha insistito sulla necessità di “ridare energia” al Paese e al partito e ha pure affermato di non avere paura “della sfida”. Non l’affronta da solo: sulla scena internazionale, vanta, per quel che conta, e per quanto può essere affidabile, un alleato di peso, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che già faceva il tifo per lui ancora prima di arrivare alla Casa Bianca e che gli ha spesso espresso sostegno, senza peritarsi di mancare a più riprese di rispetto istituzionale per la premier May.
L’accoglienza entusiastica di Trump…
A elezione avvenuta, lo showman divenuto presidente già andava dicendo che Johnson è il “Trump britannico”: “Ora abbiamo un uomo davvero in gamba come premier britannico. E’ tosto e intelligente”. E ha poi aggiunto, dando una patina da ‘teatro dell’assurdo’ alle sue parole, di essere amato in Gran Bretagna, Paese che ha visitato all’inizio di giugno fra imponenti contestazioni: “A loro piaccio … E’ ciò che volevano. E’ ciò di cui hanno bisogno. Boris è in gamba, farà un buon lavoro”. Sempre sul filo del paradosso, Trump ha accomunato nell’apprezzamento anche il leader ‘brexiteer’ Nigel Farage, dicendosi fiducioso che lui e Johnson lavoreranno bene insieme – Johnson ha già escluso patti con Farage, che alle europee ha praticamente fagocitato i tories -.
Ci sono i presupposti per una ‘relazione speciale’ non tra Stati Uniti e Gran Bretagna, ma tra i due leader: l’ “era dei clown” è un titolo di The Guardian. L’ex sindaco di Londra ed ex corrispondente di tabloid da Bruxelles potrebbe però volgere a proprio vantaggio la scarsa stima e dalla scarsa considerazione che i suoi avversari politici e mediatici gli riservano. Di lui, Tony Blair, ‘grande vecchio’ laburista e premier britannico dal 1997 al 2007, dice, in un’intervista a Die Welt, che è “uno stupido”, giudicando Trump, messo a confronto con Johnson e con Farage, “piuttosto brillante”. I laburisti, ma non solo, anche i liberal-democratici e gli scozzesi, sono convinti che “senza l’approvazione dei Comuni o degli elettori, Johnson non oserà portare il Regno Unito fuori dall’Unione europea con un ‘no deal'” e vedono sempre più vicina l’ipotesi di un nuovo referendum, recentemente avallata da Corbyn, che sulla Brexit non ha mai dato, però, l’impressione di avere le idee personalmente chiare.
… e quella cauta dei leader europei
L’Ue e i suoi Stati, prodighi in queste ore di rallegramenti e attestazioni di disponibilità a lavorare insieme, non faranno certo nulla per agevolare i progetti di Johnson di una Brexit senza accordo. “Non credo che il carattere o
l’atteggiamento” di Johnson “facciano la differenza”, dice il vice-presidente della Commissione europea uscente ed entrante Frans Timmermans, socialista e, quindi, politicamente non alleato del leader tory. “Quando c’è un nuovo premier, in qualsiasi Stato membro, è il benvenuto… Ma credo che l’accordo definito” tra Bruxelles e Londra, negoziato da Michel Barnier e già avallato dal Parlamento europeo, “sia il migliore possibile e spero che i Comuni lo comprendano”. Fin qui, a dire il vero, non lo hanno fatto, respingendolo a più riprese, malgrado le sollecitazioni della May, o forse proprio a causa di esse.
Da Parigi e da Berlino, da Madrid e dai Paesi Nordici vengono congratulazioni e aperture a incontri. Per una volta, l’Italia pare in sintonia con gli altri grandi Paesi Ue: “Lavoreremo con Boris Johnson affinché il Regno Unito resti un partner importante e affidabile per l’Unione europea anche dopo la Brexit. L’obiettivo resta quello di garantire un’uscita ordinata del Regno Unito dall’Ue e di lavorare in futuro con l’obiettivo di garantire la prosperità di tutti i cittadini europei”, scrive in un post su facebook e, in inglese, su twitter il premier Giuseppe Conte facendo al neo-premier britannico i suoi “migliori auguri”.
Le scadenze e le risposte della politica britannica
Johnson, 55 anni, non è certo stato un modello di lealtà nei confronti della premier uscente, Theresa May, di cui è stato ministro degli Esteri riottoso e poi irriducibile oppositore interno: sentiva il partito dalla sua e, su questo, aveva ragione, perché i 160 mila iscritti gli hanno tributato nel ballottaggio decisivo circa 90 mila voti contro oltre 40 mila a Hunt, 52 anni. I due erano i finalisti d’una corsa affollatissima, con oltre una dozzina d’aspiranti al posto della May.
Comunque vada, adesso, Johnson potrà godersi un’estate da premier: i Comuni chiudono i battenti giovedì 25 e li riapriranno il 3 settembre. Le procedure britanniche non prevedono un voto di fiducia al governo, a meno che non lo chieda il leader dell’opposizione. Ma Corbyn, per ora, si limita a ‘delegittimare’ l’avversario: “Johnson – twitta – ha ottenuto il sostegno di meno di 100.000 membri del Partito conservatore non rappresentativi (del Paese), promettendo tagli di tasse per i più ricchi”; sottolinea il rischio di “una dannosa Brexit senza accordo”; e afferma che “il popolo deve decidere chi debba guidare il Paese in un’elezione generale” anticipata. I laburisti scenderanno sul sentiero di guerra alla riapertura del Parlamento.
Gli indipendentisti scozzesi sostengono che “la Scozia ora deve avere una scelta”: loro tornano a invocare non solo un secondo referendum sulla Brexit (avversata da una netta maggioranza di scozzesi), ma anche per la secessione della Scozia dal Regno Unito. Per l’appena insediata leader degli europeisti LibDem, Jo Swinson, che vuole fare del suo partito “un’alternativa a nazionalismo e populismo”, “Boris Johnson ha avuto alla fine nelle sue mani le chiavi del numero 10 di Downing Street, ma ha dimostrato a più riprese di non essere adeguato per l’ufficio di premier”. E Farage, che guida il Brexit Party, augura “il meglio a Boris Johnson”, ma si chiede se “avrà il coraggio di attuare davvero” la Brexit il 31 ottobre come obiettivo “di vita o di morte”.
Il mondo degli affari, che non vuole la Brexit, considera ormai “molto probabile” lo scenario peggiore, cioè quello d’un ‘no deal’. La Getlink, la società di gestione del tunnel sotto la Manica, attraversato dai treni che collegano l’isola al continente, prevede una riduzione delle sue entrate quest’anno a 560 milioni di euro, rispetto alla stima di 575 milioni in caso di uscita dall’Ue concordata.
I Johnson, una famiglia politica, conservatrice, divisa
I Johnson sono una famiglia di politici, moderati, ma la Brexit li divide. Così, tre Johnson ‘pro Remain’ fanno festa al figlio e fratello, ma non ne condividono le scelte: sono il padre dell’ex ministro degli Esteri, Stanley, già deputato a Strasburgo, il fratello Jo, già vice-ministro, e la sorella giornalista Rachel, passata di recente nelle file del partito pro Ue radicale Change Uk. I Johnson, famiglia dell’elite britannica di tradizione conservatrice, sono molto uniti fra di loro, nonostante le differenze di opinioni sulla Brexit.
Ma chi è davvero nel neo-leader e neo-premier? Per tracciarne un ritratto, ci affidiamo ad Alessandro Logroscino, corrispondente dell’ANSA da Londra: “Boris Johnson – scrive – è l’uomo politico più popolare, istrionico, incline alle gaffe e controverso dei conservatori britannici … Favorito fin dall’inizio nella corsa alla successione della May, si accomoda al numero 10 di Downing Street con tre anni di ritardo, dopo un lungom percorso di scalate iniziate ma mai portate a compimento”.
“Vi arriva con la giovane fidanzata Carrie Symonds, esperta di comunicazione politica per la quale l’anno scorso lasciò, dopo 25 anni, la moglie Marina. Negli ultimi mesi, Carrie ha avuto un ruolo non trascurabile al suo fianco, malgrado la lite domestica spiata e spiattellata vanamente ai media un mese fa da una coppia di vicini”.
“L’ingresso in politica arriva nel 2001, quando esordisce come tribuno roboante e conquista un seggio ai Comuni, a Henley. Nel 2004 per qualche mese è vice-ministro ombra della Cultura, ma perde l’incarico per avere mentito su una delle sue numerose relazioni extraconiugali. E’ del resto protagonista ricorrente di ingarbugliate vicende personali sui tabloid. Un passato che ora gli vale il titolo di primo divorziato ufficiale a Downing Street”.
Vicissitudini di coppia a parte, la sua carriera decolla con l’elezione a sindaco di Londra nel 2008. Amministra non senza consensi la metropoli britannica, tradizionalmente a maggioranza laburista, e resta in carica due mandati, fino al 2016. Nel maggio del 2015 ritorna ai Comuni e da subito si pone come spina nel fianco dell’allora premier e vecchio amico David Cameron, fino a farsi paladino del referendum sulla Brexit: spregiudicato abbastanza, però, si racconta, da preparare prima dell’esito due discorsi, uno pro Leave e uno pro Remain”.
“La vittoria del Leave non gli permette di lanciare subito la sfida alla leadership tory. Forte di un grande seguito dentro il partito, riceve comunque l’incarico di ministro degli Esteri, che finisce per mollare nel luglio 2018 dopo una serie di baruffe con la May – e contro una linea sulla Brexit ritenuta troppo soft – oltre a qualche gaffe ben poco diplomatica. Ora è il momento di assaporare la rivincita, ispirandosi all’esempio dell’uomo che da sempre rappresenta il sue eroe e a cui ha dedicato una biografia bestseller, Winston Churchill. Malgrado la convinzione dei detrattori che non ne sia minimamente all’altezza”.