Jeremy ‘tentenna’ Corbyn ha cambiato di nuovo idea: per la Brexit, anzi contro; per l’accordo con l’Ue, ma contro l’accordo negoziato da Theresa May; per il rispetto della volontà popolare emersa dal referendum del 23 giugno 2016, anzi contro. Il leader laburista schiera il suo partito a favore d’un nuovo referendum, dentro o fuori l’Ue, e s’impegna a sostenere l’opzione Remain, contro qualunque ipotesi di divorzio ‘no deal’, cioè senza accordo, come pure contro qualsiasi accordo d’uscita dall’Ue “dannoso” e di marca tory.
La decisione laburista è stata ratificata ieri dal governo ombra e annunciata in una lettera aperta. Difficile dire quanto sia strategica, o tattica, la mossa dell’opposizione, che ingarbuglia il quadro politico britannico nell’imminenza della scelta, da parte dei conservatori, del loro nuovo leader e, quindi, del nuovo premier, in sostituzione della dimissionaria e delegittimata Theresa May.
Di fatto, l’annuncio laburista è un’ulteriore grana per il successore della May, che sia un ‘brexiteer’ arrabbiato come Boris Johnson, il favorito, o tiepido, come Jeremy Hunt. Con gli iscritti al partito, Corbyn mette da parte le esitazioni finora contestatigli dal fronte laburista anti-Brexit (maggioritario, ma non certo unanime); e sfida Johnson, o Hunt, impegnati in serata in un confronto televisivo forse determinante per l’esito della loro sfida, ad accettare un nuovo voto popolare.
La scelta tra Johnson e Hunt è affidata al voto postale dei 160.000 iscritti al Partito conservatore: l’annuncio del vincitore e atteso il 23 luglio. Entrambi i rivali giurano di voler attuare la Brexit senza esitazioni, ma solo Johnson considera tassativa la scadenza del 31 ottobre, a costo di rendere più probabile l’ipotesi di un divorzio ‘no deal’.
“Chiunque diventi premier, deve sottoporre al voto del popolo il suo accordo o un no deal”, scrive Corbyn. “In questo caso – aggiunge -, il Labour farà campagna per il Remain contro qualunque accordo Tory che non protegga l’economia e i posti di lavoro”. C’è però riserva, concordata lunedì in una riunione fra i vertici laburisti e i sindacati che sostengono il partito: è legata all’eventualità che il prossimo governo tory cada, che passi la mano a un esecutivo laburista e che questo negozi una Brexit soft.
Insomma, il nuovo referendum resta un’ipotesi lontana, sulla via della quale potrebbero pure esserci elezioni politiche anticipate. La svolta laburista è stata approvata – sia pur con qualche riserva – dall’ala più europeista del partito e dalla fronda animata dal vice-leader Tom Watson, ma era pure sollecitata ormai da mesi da esponenti della sinistra interna fedelissimi di Corbyn.
Come fra i conservatori, la Brexit crea, però, contraddizioni anche fra i laburisti: oltre 20 deputati sono stati eletti in collegi pro Brexit e lo zoccolo duro pro Leave della base laburista è quantificato in circa un quarto del suo elettorato. L’opzione nuovo referendum è inoltre denunciata dai tories come un tradimento dell’impegno assunto dal Labour nel manifesto elettorale del 2017 a rispettare l’esito pro Brexit del referendum 2016.
Mentre in Gran Bretagna le forze politiche faticano ad assumere e mantenere una posizione, l’Ue tiene la barra dritta e si prepara all’ipotesi peggiore, una Brexit ‘no deal’. I ministri dell’Economia dei 28, riuniti ieri nell’Ecofin, hanno varato misure di emergenza per finanziare il bilancio europeo 2019 in caso di Brexit senza accordo. L’obiettivo è mitigare l’impatto in settori come la ricerca e l’agricoltura.
Una Brexit ‘no deal’, dicono i ministri dei Paesi dell’Ue, non inficia l’obbligo d’onorare gli impegni già presi, sia da parte dei 27 che della Gran Bretagna. Le misure ora adottate – già varate dall’Assemblea di Strasburgo il 17 aprile – consentiranno all’Unione di continuare a fare pagamenti ai beneficiari britannici per i contratti sottoscritti prima della data del divorzio, a patto che Londra continui a versare i contributi concordati nel bilancio 2019.