Nostra davvero non l’è mai stata. Ma per qualche tempo abbiamo creduto che lo fosse. E almeno per una manciata d’anni ci abbiamo pure costruito sopra un simulacro d’Impero. Poi, però, quando, nel dopoguerra e negli anni della decolonizzazione, si trattava di sostituire al possesso un intreccio di contatti e di relazioni, non siamo riusciti a legare a noi in modo indissolubile e politicamente ed economicamente redditizio quelle che erano state le ‘nostre’ colonie. Come hanno fatto la Francia, persino in Algeria, nonostante la sanguinosa guerra raccontata da Gillo Pontecorvo ne ‘La Battaglia di Algeri’, e la Gran Bretagna, che ripone nel Commonwealth, oltre che nella ‘relazione speciale’ con gli Stati Uniti, la speranza di cavarsela dopo la Brexit.
Noi ci siamo trovati espulsi dai Paesi che avevamo accompagnato all’indipendenza, co’’è accaduto in Eritrea e in Libia, o immanicati e coinvolti con dittatori della peggior specie, come in Somalia Siad Barre (fino al 1992) e in Libia Muammar Gheddafi (fino al 2011). Delle quattro ex colonie italiane – tre nell’Africa orientale, una nel Nord Africa -, due oggi sono Stati falliti – Somalia e Libia – e gli altri due hanno vissuto esperienze dittatoriali (l’Eritrea c’è tuttora dentro) e una guerra fratricida sanguinosa, la cui pace, l’anno scorso, ha sorpreso protagonisti e osservatori.
Eppure, dove l’Italia è stata più tempo ha lasciato tracce profonde. Due anni or sono, l’Unesco dichiarò Asmara, la capitale dell’Eritrea, “patrimonio dell’umanità”: “Un esempio eccezionale d’urbanistica modernista”. “L’Eritrea – scriveva in quei giorni su AffarInternazionali.it l’ambasciatore Antonio Armellini – è l’unico Paese in cui il ‘mal della pietra’, che ha caratterizzato, a volte in maniera irrazionale, la colonizzazione italiana, ha avuto il tempo di lasciare una traccia ben strutturata”.
“La Somalia – proseguiva l’ambasciatore – è sempre stata la retrovia trascurata. In Libia, l’instabilità continua e la prevalenza data allo sviluppo agricolo … hanno ridotto qualità e quantità degli interventi. In Etiopia i progetti ‘imperiali’ non hanno avuto il tempo per essere realizzati: sono rimaste solo le tracce delle grandi costruzioni avviate in tutte le principali città del Paese e rimaste incompiute; e il tentativo di recuperare i piani urbanistici d’avanguardia per l’epoca e di trasmetterli al governo etiopico non andò a buon fine, nonostante qualche tentativo”.
In Eritrea, invece, tempo e impegno hanno permesso di dare vita, soprattutto ad Asmara, a quello che è divenuto un campionario dell’architettura italiana del Novecento: San Giuseppe, la cattedrale, e i palazzi Art Déco; villette finto-tirolesi e pseudo-liberty che segnalavano il livello di benessere raggiunto dai primi coloni; il grande sviluppo urbanistico del periodo fascista, con la mescolanza d’exploits razionalisti e di magniloquenza gradassa, sino ai ‘palazzinari’ del secondo dopoguerra, segno ultimo di una presenza italiana che è continuata ininterrotta sino alla definitiva espulsione negli Anni Settanta. E a Massaua gli stili architettonici italiani, egiziani, turchi raccontano la storia d’una città multiculturale.
In Eritrea la presenza italiana data dal 1869, quando il padre lazzarista Giuseppe Sapeto per conto della società di navigazione Rubattino di Genova, avviò le trattative per l’acquisizione della Baia d’Assab. Il nome Somalia deriva dall’esploratore italiano Luigi Robecchi Bricchetti, primo europeo a battere la regione del Corno d’Africa denominata Benadir. L’Etiopia, allora Abissinia, ci cacciò indietro alla fine del XIX Secolo – il ricordo ormai labile è nei nomi di molte vie delle nostre città, Adua, Amba Alagi -, ma fu poi conquistata per un lustro nel 1935. La conquista della Libia precede la Grande Guerra. Il quadro delle colonie è così completo.
In Somalia, nel 1992, dopo la fine della dittatura di Siad Barre, troppo ‘amico’ dell’Italia socialista di Bettino Craxi, e in Libia nel 2011 siamo tornati in armi: un’operazione umanitaria, la prima, che ci costò una ventina di caduti – fra cui tre giornalisti, una era Ilaria Alpi -; una missione di ‘regime change’ la seconda, tuttora senza sbocchi sicuri.
L’eredità che ci resta delle colonie è povera d’affari: ne facevamo un po’ con Gheddafi, a corrente alternata, e continua a farne in Libia l’Eni; ne facciamo – ne fa soprattutto la Salini – in Etiopia. Ed è ricca di grane: chi scappa da quella ‘universal caserma’ che è l’Eritrea prova a venire in Italia, spesso sui barconi in partenza dalla Libia. Frutti bacati d’una post colonizzazione mal gestita.