Il Messico allunga una mano, per cercare di strappare un accordo in extremis agli Stati Uniti. Ma Donald Trump vuole prendersi tutto il braccio: non gli basta che il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador schieri 6.000 soldati al confine meridionale con il Guatemala per impedire ai migranti che risalgono anche dall’Honduras di entrare nel Paese e da lì, dopo averlo attraversato da Sud a Nord, passare negli Stati Uniti. Il governo messicano ha, inoltre, bloccato i conti bancari dei trafficanti e delle organizzazioni che organizzano le carovane di migranti dal Centro America.
L’annuncio fatto dal ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard non smuove la Casa Bianca. “La nostra posizione non è cambiata. I dazi entreranno in vigore lunedì”, dice Sarah Huckabee Sanders, la portavoce. Trump intende applicare dazi crescenti sull’export messicano (partendo dal 5 e salendo fino al 25%), finché il Paese non arresterà il flusso di migranti dal Centro-America verso gli Usa.
Ebrard è a Washington per negoziare e per impedire che gli Usa l’introduzione dei dazi, un’arma che l’Amministrazione Trump minaccia e maneggia con molta disinvoltura, verso i Paesi vicini e versi quelli europei, ma soprattutto nei confronti della Cina, incurante – o ignara? – dei contraccolpi che può subirne il commercio mondiale. Con la stessa facilità, il magnate presidente ripristina o impone sanzioni, da Cuba all’Iran, dal Venezuela alla Russia. Scelte muscolari che privilegiano sempre la prova di forza sulla ricerca di un compromesso.
La Casa Bianca ammette che le trattative con il Messico “hanno fatto molti progressi”, ma resta ancorata all’entrata in vigore delle tariffe: una misura necessaria, secondo Trump, che evoca “un’emergenza economica” dopo avere invocato, nei mesi scorsi, “un’emergenza di sicurezza” nazionale per finanziare senza l’avallo del Congresso l’erezione di un muro lungo il confine col Messico.
Ostacolata da deputati e senatori (anche repubblicani) e bloccata a più riprese da giudici federali, che ne contestano la legittimità, la costruzione del muro procede a singhiozzo. Il presidente non demorde e, con i dazi sull’export messicano, intende attuare un’altra sua promessa elettorale rimasta finora lettera morta: che il muro lo avrebbero pagato non i contribuenti americani, ma i messicani – il perché non è mai stato chiaro -.
Il fatto è che Trump è di nuovo in campagna elettorale: mancano più di 500 giorni all’Election Day 2020, ma il magnate tiene sulla corda la sua base con i cavalli di battaglia di Usa 2016, migranti e dazi, cioè, in uno slogan, ‘America first’. Nel voto di midterm dello scorso novembre, il mix ebbe scarso effetto: ma, invece di cambiare ricetta, Trump aumenta le dosi.
Mescolando il sacro al profano, il diktat al Messico è partito dalla Normandia, dove il presidente celebrava il 75° anniversario dello Sbarco, ed è poi stato ripetuto sulla frontiera fra le due Irlande (come se ci fosse una qualsiasi somiglianza storica o geografica fra le due situazioni). Ma la stretta era già stata tratteggiata: i dazi saranno del 5% da lunedì, saliranno al 10% dal 1° luglio e al 25% entro ottobre. Un’escalation che, secondo le stime degli economisti, rischia di fare saltare almeno 400 mila posti di lavoro negli Stati Uniti, mettendo in difficoltà le economie degli Stati confinanti con il Messico, come il Texas e la California.
Molte imprese statunitensi che producono in Messico e vendono negli Usa saranno colpite dai dazi che graverebbero sul settore auto per 34 miliardi di dollari, su quello dei camion e dei bus per altri 34 miliardi, su quello del petrolio per oltre 14 miliardi e sull’agroalimentare per altri 14 miliardi. C’è fermento in Congresso tra i repubblicani, tradizionalmente anti-protezionisti, contro il piano e c’è chi lavora per bloccarlo, de entrerà in vigore.
Per sventare i dazi, Trump pone al Messico tre condizioni: ‘blindare’ la frontiera con il Guatemala; rafforzare la lotta al contrabbando e ai traffici illeciti; levare ai migranti ‘in transito’ il diritto di fare domanda di asilo negli Usa.
A maggio – secondo i dati di Washington -, c’è stato un boom degli arresti di immigrati clandestini: quasi 145 mila, il 35% in più rispetto ad aprile, il numero più elevato da sette anni. Tra i fermati, oltre 84 mila gruppi familiari e oltre 11 mila minori non accompagnati. La Casa Bianca risponde riducendo o cancellando le risorse per scuole, sport e assistenza legale ai bambini immigrati che vivono nei campi governativi.