Fuori due: la Brexit ha già bruciato due premier britannici conservatori, prima David Cameron, colpevole d’averla innescata per sventarla e d’averla invece subita; ora Theresa May, colpevole d’averla assunta e di non averla poi realizzata. E siccome la regola del ‘non c’è il due senza il tre’ vale anche Oltre Manica, la Brexit potrebbe bruciare anche il prossimo premier, se non saprà cavarsela d’impaccio in fretta in questa sorta di ‘comma 22’: il Parlamento boccia ogni accordo d’uscita dall’Ue, ma impone al governo di avere un accordo per uscirne.
La May ha ieri formalizzato le dimissioni da leader del Partito conservatore britannico, annunciate due settimane or sono, fallito l’ennesimo tentativo di ottenere dai Comuni la ratifica di un’intesa sulla Brexit. La premier guiderà il governo fino a quando i Tories non avranno eletto un successore: le procedure, complesse, prima parlamentari e poi fra gli iscritti, scatteranno la settimana prossima e dovrebbero concludersi fra il 22 e il 25 luglio. Ancora sei settimane di coma assistito per Londra e per Bruxelles e le capitali dei 27.
La corsa al posto della May è affollata, come quella alla nomination democratica alla presidenza degli Stati Uniti: là 22 pretendenti; qui 11, ma possono aumentare (per presentare le candidature, c’è tempo fino alle 17 di lunedì 10 giugno). Eppure il posto ‘scotta’, perché il nuovo leader tory che alla fine prenderà possesso del numero 10 di Downing Street, la residenza ufficiale, potrebbe restare nella storia come uno dei più brevi premier britannici.
Tutto sarà funzione della Brexit e delle elezioni politiche probabilmente inevitabili. Il successore della May cercherà di portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea, come il popolo chiese con un referendum il 23 giugno 2016 e come – tre anni dopo – non s’è ancora riusciti a fare. Se non riuscirà a ottenere dai 27 un’intesa migliore di quella già concordata, potrà sciogliere il Parlamento e tornare alle urne: nel qual caso, la disfatta dei tories, che alle europee hanno fatto il risultato peggiore di tutti i tempi, pare inevitabile; e il suo successore sarà, verosimilmente, un laburista, evitando d’evocare qui l’ipotesi di un ultrà ‘brexiteer’ alla Nigel Farage.
Se invece chi verrà dopo la May riuscirà a sganciare la Gran Bretagna dall’Unione europea, dovrà cogliere l’opportunità del andare alle urne nella stretta finestra temporale tra l’euforia dei britannici per essere usciti dall’incertezza ‘né dentro né fuori’ e il loro rendersi conto di tutte le magagne generate dalla Brexit.
Il nuovo leader s’insedierà a 100 giorni dalla data limite della permanenza del Regno Unito nell’Ue, il 31 ottobre. Lo speaker dei Comuni John Bercow gli ricorda fin d’ora che avrà comunque bisogno dell’ok del Parlamento. “La Camera – dice – non sarà sciolta al culmine del processo decisionale sulla Brexit”.
Annunciando le dimissioni, il 24 maggio, la May aveva ricordato di essere stata la seconda donna premier del Regno Unito, dopo Margaret Thatcher, ma non certo l’ultima. E’ però difficile che le succeda una donna: i quattro favoriti sono tutti uomini; e le donne in corsa sono solo due, e le più ‘estremiste’ pro ‘no deal’. In pole position, c’è Boris Johnson, ex ministro degli Esteri ed ex sindaco di Londra, un falco dei falchi ‘brexiteers’. Johnson era già anti-Cee quando faceva il corrispondente da Bruxelles e l’Unione non era ancora nata: è molto popolare tra la base del partito, ma lo è meno fra i deputati spesso sconcertati dai suoi voltafaccia.
L’’anti-Johnson’ dei bookmakers è Michael Gove, segretario all’Ambiente, che potrebbe man mano raccogliere i consensi dei candidati eliminati. Al terzo posto, i sondaggi danno Dominic Raab, uno dei negoziatori sulla Brexit: un radicale del Leave, che potrebbe vidimare un divorzio senza intesa. E, più o meno alla pari con Raab, il ministro degli Esteri uscente Jeremy Hunt. Nessuna chance o quasi gli altri, neppure per Sajid Javid, un figlio d’immigrati divenuto un ‘talebano’ anti-migranti.