Per la prima volta da molti mesi in qua, i leader dei 28 si sono incontrati a Bruxelles martedì sera, 28 maggio, senza l’ossessione della Brexit: l’annuncio delle dimissioni di Theresa May, prima, e l’esito delle elezioni europee, poi, sembrano avere spazzato il tema dall’agenda europea. Resta – è ovvio – su quella britannica. Ma sono ormai due storie diverse. Perché il risultato del voto europeo pare rendere la Brexit inevitabile, con o senza l’accordo. E allora tanto vale che gli orfani di Londra tirino dritto per la loro strada: devono decidere i nuovi assetti delle Istituzioni comunitarie e modellare nuove maggioranze politiche europee, dopo avere respinto alle urne l’assalto sovranista ed euro-scettico.
Così, l’incontro a Bruxelles, prima del Vertice straordinario post-elezioni e pre-nomine, tra la May e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker è passato quasi inosservato: “Sono stato molto chiaro: non ci sarà un nuovo negoziato” sulla Brexit, dice l’ex premier lussemburghese, alle battute finali del suo mandato. La May, dal canto suo al passo dell’addio, usa toni concilianti: finché è nell’Ue, “il Regno Unito continuerà ad avere un ruolo costruttivo … Ho il grande rimpianto di non essere riuscita a concludere la Brexit, ma questo ora sarà un compito del mio successore. Trovare la maggioranza in parlamento richiederà dei compromessi”, nota la premier dimissionaria, sostenendo ancora che “la migliore opzione per la Gran Bretagna è lasciare l’Ue con un accordo”. E’ parlare a Bruxelles perché Londra intenda: fra gli aspiranti alla sua successione – una piccola folla -, ve ne sono alcuni, come il favorito, l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson, che non respingono l’ipotesi di un ‘no deal’.
Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, un altro candidato al ‘dopo May’, definisce, invece, l’uscita dall’Ue senza un accordo con Bruxelles un “suicidio politico” per il partito conservatore: porterebbe il Paese a elezioni politiche anticipate, che i tories – al minimo dei consensi – vogliono ora evitare, e lo consegnerebbe ai laburisti. Esther McVey, anche lei in corsa per sostituire la May, pensa, per contro, che sarebbe un “suicidio politico” non abbandonare l’Unione entro la scadenza ormai fissata del 31 ottobre, con o senza accordo. E’ solo uno scorcio della confusione – la nebbia, direbbero in Albione – che grava sull’immediato futuro della Gran Bretagna: ci sono quasi tanti aspiranti premier conservatori nel regno Unito quanti aspiranti candidati democratici a Usa 2020 negli Stati Uniti.
E che, in fondo, consente di dire a Donald Tusk, presidente – anch’egli ‘a termine’ del Consiglio europeo – che l’Unione è il vero vincitore delle elezioni appena svoltesi: “La maggioranza degli elettori ha votato per un’Unione più efficace e ha respinto un’Unione più debole. La Brexit è stato il vaccino contro la propaganda anti-Ue e le fake news”. Grazie!, Londra.
Nel Regno Unito, le elezioni europee hanno visto un netto successo del Brexit Party dell’immarcescibile Nigel Farage, che ha ottenuto circa il 32% dei suffragi e 29 seggi – sarà dunque sua la componente nazionale più numerosa dell’Assemblea di Strasburgo -. Nel fronte pro Remain ci sono le avanzate di Liberaldemocratici e Verdi, l’arretramento del Labour e il tracollo dei Tories al minimo storico. Il tutto sullo sfondo di un’affluenza che comunque non supera il 36,7%, un paio di punti in più rispetto al 2014, ma un paio di punti in meno rispetto al picco del 2004.
Dietro il Brexit Party e i suoi 29 seggi (cinque più dei 24 ottenuti dallo Ukip cinque anni or sono), ci sono i LibDem con oltre il 20% e 16 seggi (+15); quindi laburisti sopra il 14%, 10 seggi (-8), e Verdi al 12% e sette seggi (+4). I Conservatori sono solo quinti con il 9% e quattro seggi (-15). Indipendentisti scozzesi e altre formazioni regionali o settoriali si spartiscono i seggi restanti.
La corsa al dopo May
Adesso, chissà quando mai usciranno dall’Unione europea, se mai ne usciranno, ‘sti britannici fastidiosi e appiccicosi che vogliono andarsene, ma che non riusciamo a scrollarceli di dosso – almeno, quando negoziamo con loro non litighiamo fra di noi -. Le dimissioni di Theresa May, annunciate ieri ed effettive il 7 giugno, accrescono dubbi e incertezze sulle prossime tappe dell’odissea Brexit e rischiano di dilatarne i tempi ben al di là dell’attuale limite, il 31 ottobre, che già costituisce una dilazione rispetto al 29 marzo convenuto. Un nuovo governo?, nuove elezioni?, una nuova maggioranza?, un nuovo referendum?, una nuova trattativa con l’Ue?, tutte queste opzioni sono aperte, tutte tranne l’ultima, almeno a credere al portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas, che dice e ripete: “Rispetto per la May, disponibilità con il suo successore, ma l’accordo c’è – quello che i Comuni hanno già respinto tre volte, ndr – e non si rinegozia”.
Le lacrime agli occhi, dopo le tensioni e le umiliazioni delle ultime settimane, Theresa May si congeda senza andarsene: si sorbirà da premier l’ultima corvée indigesta di questo suo scomodo mandato, la visita di Stato di Donald Trump che dà fastidio a tutti, a cominciare dalla Regina, sgradevole preambolo alle celebrazioni dello sbarco in Normandia il 5 e 6 giugno; poi, assicurerà gli affari correnti, nell’attesa del successore.
La svolta delle dimissioni della May, non inattese, può dare un significato diverso al voto di giovedì per il Parlamento europeo, che per i britannici doveva essere un ‘pro forma’, “tanto ne usciamo presto, al più tardi a fine ottobre”, e che adesso rischia invece di contare: nell’Ue e nel Regno Unito. Nigel Farage, il pifferaio di Hamelin della Brexit, potrà continuare a vivere del suo buon stipendio di parlamentare europeo che, sempre sputando nel piatto dove mangia, incassa, ininterrottamente, da vent’anni, dal 1999: vale la pena, per continuare a farlo, di farsi sporcare un elegante completo dal frappé di qualche pro-Ue arrabbiato – il lancio del frappé contro i brexiteers è stato lo sport in voga nella brevissima campagna elettorale britannica -.
Giusto per capire dove siamo – perché ci siamo è più complicato -, srotoliamo il nastro degli ultimi tre anni: il 23 giugno 2016, una maggioranza di britannici sceglie, con un referendum, la Brexit. David Cameron, il premier che l’aveva indetto, se ne va, perché lui era per il Remain. Al suo posto, s’insedia la May, pure tory, che dice “Brexit means Brexit” – la cosa più icastica del suo mandato -. Ma ci vogliono otto mesi perché Londra chieda di uscire e due anni di trattative per definire un’intesa con i 27, che i Comuni, però, bocciano a ripetizione, vincolando, nel contempo, il governo a evitare il ‘No deal’, cioè l’uscita senza accordo. Quindi, l’accordo non va, ma ci vuole un accordo. La May sta tra il martello dei Comuni, dove molti tories le votano contro, e l’incudine dell’Ue, che le dice che l’intesa c’è: basta che loro l’approvino. Passa la data dell’uscita prevista, il 29 marzo e si sposta l’orizzonte temporale al 31 ottobre: diventa inevitabile votare per il Parlamento europeo, paradosso che tutti avrebbero volentieri evitato, Londra e i 27. E adesso, specie dopo le dimissioni della May, tutto è ancora possibile: Londra va, Londra resta. Una cosa è chiara: stare nell’Ue è complicato, ma uscirne è molto più complicato. Ed è peggio.
I risultati delle elezioni di giovedì non faranno chiarezza, quando saranno noti, domenica sera 26 maggio. Quelli che ancora vogliono la Brexit e che non capiscono perché non l’hanno già avuta avranno tutti votato il partito di Farage, che adesso, per fare coincidere il messaggio e il programma, si chiama Brexit; e quelli che proprio non vogliono la Brexit e che considerano la permanenza nell’Ue la priorità avranno tutti votato i campioni d’europeismo liberal-democratici; laburisti e soprattutto conservatori li avranno votati in pochi, perché hanno deluso gli anti-Brexit, non prendendo posizione contro, e pure i pro-Brexit, non riuscendo a realizzarla. Ma, se si tratta di fare un nuovo governo, pochi vorranno affidarsi a Farage, uno che getta il sasso e ritira la mano, un Cincinnato al contrario, che lascia Strasburgo per fare danni a Londra e, quando ha fatto i suoi danni, torna a Strasburgo.
All’uscita di scena – e le dimissioni in Gran Bretagna sono un addio, non un arrivederci -, tutti concedono alla May l’onore delle armi, dopo averla martoriata in ogni modo, presunti amici o dichiarati avversari che fossero. Lei esprime “rammarico” per non avere realizzato la Brexit e rivendica, con un groppo in gola, di avere “servito il Paese che amo”, prima di ritirarsi a passo un po’ affrettato per battere sul tempo le lacrime dietro il portone al numero 10 di Downing Street. Boris Johnson, l’ex ministro degli Esteri, il Bruto di tutte le congiure conservatrici anti-May, ha l’ipocrisia d’elogiarla. Jeremy Corbyn, il leader laburista, accoglie come una scelta giusta, quanto inevitabile, le dimissioni, ma nega che un nuovo leader tory possa fare meglio e vuole subito elezioni politiche anticipate. La May, la seconda donna a guidare la Gran Bretagna, dopo Margaret Thatcher, “ma non certo l’ultima”, invita, come testamento politico, non considerare il compromesso “una parola sporca”: a lei, Johnson e Corbyn di compromessi ne hanno concessi pochi.