Cinque i criteri che condizioneranno le scelte dei leader dei 28, che oggi si riuniscono a Bruxelles per valutare l’esito del voto di domenica e cominciare a dipanare la matassa delle nomine alla guida delle Istituzioni comunitarie: i presidenti della Commissione europea e del Consiglio europeo e l’alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza – una sorta di ‘ministro degli Esteri’ europeo -, il presidente del Parlamento europeo e, in prospettiva, il presidente della Banca centrale europea.
Il negoziato sulle nomine è estremamente incerto: deve tenere conto di equilibri politici, nazionali, demografici, geografici e di genere. In più c’è il fattore rotazione: chi ha appena avuto un posto, tendenzialmente non lo riavrà. E chi ne ha appena avuti tanti, e persino troppi, tendenzialmente non riavrà niente. E’ il caso dell’Italia, che oggi gestisce tre di quelle cariche e verosimilmente non ne avrà più nessuna.
Non le gioca contro solo il fattore rotazione, ma pure tutti gli altri criteri. Le due forze che formano il governo italiano hanno nell’Unione referenti diversi, nessuno dei quali ha, però, responsabilità di governo e ha, quindi, il potere d’influenzare la decisione sulle nomine, che spettano ai capi di Stato e/o di governo, con l’avallo del Parlamento europeo.
Gli incarichi vengono normalmente ripartiti fra Paesi diversi. L’Italia è un grande Paese e Francia, Germania e Spagna, con la Polonia gli altri Grandi Paesi Ue, hanno propri candidati a posti diversi: il tedesco Manfred Weber e il francese Michel Barnier possono entrambi arrivare, seguendo percorsi diversi, alla presidenza della Commissione; la Spagna punta al ‘ministro degli Esteri’.
L’Italia potrebbe barattare l’appoggio a candidati di Paesi minori con il sostegno a sue richieste. Difficile, però, la reciprocità con l’Olanda, che può puntare alla presidenza del Consiglio europeo, per il premier Mark Rutte, o al ‘ministro degli Esteri’, con l’ex ministro degli Esteri e attuale vice-presidente della Commissione europea Frans Timmermans. Più facile, per l’Italia, immaginarsi forme di reciprocità con i Paesi del Gruppo di Visegrad o, più genericamente, con i Paesi dell’ex Europa orientale, che possono cercare qualche approdo per la presidente lituana Dalia Grybauskaite, ex commissaria europea. Ma, finora, gli amichetti sovranisti di Matteo Salvini sono stati più bravi a chiedere che a dare.
Quanto al genere, non si intravvede una donna di caratura europea nella disponibilità di Lega e M5S. A meno che il Governo Conte non voglia giocare la carta del boicottaggio delle Istituzioni dell’Ue, designando a Bruxelles, per un incarico alla Commissione europea, il sottosegretario all’Economia e alle Finanze Laura Castelli – e comunque si tratterebbe di un ruolo di comprimario, non di leader.
In realtà, l’Italia un asso nella manica potrebbe averlo, per piazzare una pedina in un posto che conta in funzione del prestigio e della competenza, al di là dei meriti del Paese: si tratterebbe di riciclare Mario Draghi, in scadenza di mandato alla Bce, magari come presidente dell’eurogruppo – quando l’attuale, il portoghese Mario Centeno dovesse lasciare, o per un portafoglio economico importante alla Commissione.
Le designazioni dei commissari sono fatte dai singoli governi. Ma, in quello italiano, non si sono finora visti estimatori di Draghi.
Così, il rischio di rimanere a bocca asciutta è alto. E c’è pure l’ipotesi che il Parlamento europeo, dove c’è una maggioranza antitetica a Lega e M5S, bocci il commissario italiano designato, tanto per fare vedere chi comanda a Bruxelles.