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Usa-Iran: Bolton troppo falco, Trump fa il pompiere

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/05/2019

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Questa ci mancava – ed è merito, o colpa, di John Bolton -: Donald Trump in versione pacifista, un moderato che getta acqua sul fuoco e che dice di “non volere la guerra” con l’Iran, dopo avere messo sotto pressione in ogni modo la Repubblica islamica: uscendo dall’accordo sul nucleare; reintroducendo e inasprendo le sanzioni economiche e commerciali; discutendo un piano per l’invio nella Regione di 120 mila uomini, roba da Guerra del Golfo 3, dopo quelle del ’91 – vittoriosa, Bush sr – e del 2003 – disastrosa, Bush jr-.

Ma è quasi inevitabile, dovere fare la parte del pacifista, quando ti sei scelto Bolton, il falco dei falchi della diplomazia – si fa per dire – americana, come consigliere per la sicurezza nazionale: c’è Bolton dietro la gestione muscolare, e fin qui infruttuosa, della crisi venezuelana; e c’è Bolton dietro il precipitare delle tensioni in Medio Oriente.

Intendiamoci, il magnate presidente ci mette del suo: i rapporti privilegiati con Arabia Saudita e Israele sono un marchio di fabbrica della famiglia Trump – c’è lo zampino di Jared Kushner, il ‘primo genero’ – fin dalla campagna elettorale, un anello di contenimento della minaccia iraniana percepita come tale a Riad – sciiti contro sunniti e predominio regionale – e a Gerusalemme – Teheran non riconosce lo Stato ebraico e non ha mai rinunciato a una retorica aggressiva -.

Ma Bolton è uno che non fa – troppa – differenza tra il dire e il fare, cioè fra il non escludere l’uso della forza e l’avere davvero intenzione di usarla. Neo-cons dell’era Bush, sotto-segretario di Stato con Colin Powell, che lo teneva a freno, finì, nel 2005, a fare il rappresentante degli Usa all’Onu, lui, risolutamente ostile al multilateralismo. ‘Neutralizzato’ nell’era Obama, è tornato a fare danni con Trump: ostile da sempre all’accordo sul nucleare con l’Iran, e favorevole al ‘cambio di regime’ in Corea del Nord e, ora, in Venezuela, è diventato consigliere per la Sicurezza nazionale dopo la cacciata di due generali, Michael Flynn, finito nel tritatutto del Russiagate, e H.R. MacMaster, una persona di troppo buon senso per Trump.

Bolton è uno che lavora un sacco ed è anche uno capace di mediare, se deve farlo: i suoi colleghi al Palazzo di Vetro se ne resero conto e glielo riconobbero. Ma il magnate presidente non gli chiede di mediare, salvo poi lamentarsi di essere stato spinto oltre dove voleva andare. Così, adesso, la Casa Bianca fa sapere che Trump continua a preferire un approccio diplomatico per risolvere le tensioni con Teheran e vorrebbe parlare direttamente con i leader iraniani; e lascia trapelare l’irritazione del presidente con Bolton, che preme per il pugno duro contro Teheran e che avrebbe voluto fargli credere che una prova di forza è possibile. Bolton, che di politica estera ne sa parecchio, ha anche influenza sul segretario di Stato Mike Pompeo, che, invece, ne mastica ancora poco.

In questo clima, il ministro della Difesa ad interim, Patrick Shanahan, che attende ancora di ricevere i galloni che furono del generale James ‘cane pazzo’ Mattis, aveva messo a punto un aggiornamento dei piani militari che prevedono l’invio di un massimo di 120.000 soldati in Medio oriente nel caso in cui l’Iran dovesse attaccare le forze americane o accelerare sulle armi nucleari.

La mossa americana sarebbe stata collegata a documenti d’intelligence, comprese foto di missili iraniani imbarcati su piccole imbarcazioni dai Guardiani della Rivoluzione e pronti ad essere usati, potenzialmente contro unità navali Usa, navi commerciali o truppe americane di stanza in Iraq.

Ma non tutti vi leggono una mossa aggressiva: gli europei, gli iracheni ed esperti bipartisan d’intelligence e di Esteri nel Congresso vi vedono, piuttosto, mosse difensive iraniane innescate dall’atteggiamento provocatorio di Washington. L’affidabilità delle analisi d’intelligence è oggetto di un aspro dibattito tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono, Cia e Paesi alleati, “rispecchiando – scrive il New York Times – la profonda sfiducia nei confronti del team di sicurezza nazionale del presidente Trump”.

L’altro giorno, in una riunione di gabinetto, Trump avrebbe imposto l’altolà a Shanahan, parlando, in realtà, a Pompeo e a Bolton: lui non vuole lo scontro, ha detto, ed è convinto che l’Iran “presto accetterà di negoziare”. Su che cosa, e perché, non è chiaro.

I resoconti del Washington Post e del New York Times, attribuiti a fonti di prima mano, offrono poi l’occasione all’ ‘untore di fake news in capo’ di prendersela – è ovvio – con i media: “I fake news media stanno danneggiando il nostro Paese con la loro copertura fraudolenta ed estremamente inaccurata sull’Iran. E’ caotica, con fonti di basso livello e pericolosa”. Ma, in questo bailamme, Trump vede un punto a favore: “A questo punto, l’Iran non sa che cosa pensare e questo potrebbe essere assolutamente positivo”.

Forse perché non ci stanno capendo nulla, o forse perché hanno le idee chiare, gli iraniani non ci pensano proprio a negoziare: “L’escalation statunitense è inaccettabile”, dice il ministro degli Esteri Javad Zarif. Persino da parte israeliana, c’è chi leva il piede dall’acceleratore: Benjamin Netanyahu vuole tenere sotto pressione Teheran, ma non scatenare una guerra. Pure in Iraq, dove c’è una larga maggioranza sciita, c’è inquietudine: a Baghdad, il clima che si sta creando fra Washington e Teheran ricorda quello che precedette l’invasione del Paese nel 2003 – ma l’Iran è quattro volte più grande e ha quattro volte più abitanti -. Il governo iracheno ha ammonito le milizie sciite a non provocare le forze americane di stanza nel Paese.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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