E’ scontro con la Cina a 360 gradi: gli scambi, la tecnologia, la presenza militare, una rete di basi che Pechino sta collocando in tutto il Mondo lungo le rotte dei suoi investimenti. Da inizio maggio, gli Stati Uniti di Donald Trump usano con Pechino più il bastone che la carota: l’aumento dei dazi, l’inserimento di Huawei in una lista nera della sicurezza nazionale, l’allarme del Pentagono davanti alle attività militari cinese (per ora, logistiche). Che sia tattica o strategia, non è ancora chiaro: atteggiamento di facciata finalizzato a ottenere concessioni sui fronti di negoziato aperti?, o acquisizione di posizioni di forza, in vista di una prova muscolare?
La stampa internazionale si pone questa interrogativo. Il Global Times è perplesso: non crede che Washington possa davvero arginare l’espansione di Huawei, che ha già aperto brecce in Europa, non solo in Italia, ma in Ungheria e persino in Gran Bretagna. E la Deutsche Welle non ha dubbi: gli europei non seguiranno Trump; anche la Germania, la Francia e l’Olanda non intendono mettere al bando il colosso delle telecomunicazioni cinese dai network 5G nazionali.
Ufficialmente, la decisione di Washington nasce dal timore che le attività e soprattutto le tecnologie di Huawei possano essere usate per spiare gli Stati Uniti, carpirne i segreti tecnologici e militari. E’ per questo che l’azienda e 70 sue affiliate sono finite nella ‘Entity List’ Usa, una sorta di lista nera degli scambi internazionali, che riduce la possibilità d’acquisire componenti da aziende americane. Il che mette in difficoltà Huawei, che ne ha bisogno, ma pone pure in imbarazzo le società Usa che vogliono lo stesso fare affari con Huawei perché devono ottenere una licenza.
Timori di spionaggio industriale, già emersi in passato e avallati da indagini dell’intelligence e dell’Fbi; ma non solo. La Cina è impegnata a proteggere gli investimenti del programma d’infrastrutture globali One Belt One Road, la Nuova Via della Seta: un rapporto del Pentagono, pubblicato ai primi del mese, rende esplicita la percezione d’una crescente minaccia militare cinese che sarebbe all’origine dell’impennata delle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino.
Nelle ultime tre settimane, è stato un susseguirsi d’un colpo al cerchio e uno alla botte, nelle dispute tra i due giganti del Pil e degli scambi mondiali. Assediato sul fronte interno dai democratici all’opposizione, i media, le inchieste, il magnate presidente torna a fare la voce grossa con la Cina, poche ore prima della ripresa dei negoziati a Washington: un fulmine a ciel sereno, incomprensibile se non fosse – forse – la coincidenza con il rapporto del Pentagono.
Pechino – twitta il presidente – “non sta ai patti” e “la pagherà”, con un rialzo dei dazi dal 10 al 25% su export cinese per 200 miliardi di dollari, scattato alle 24.00 del 9 maggio – ora della Costa Est degli Stati Uniti -. Ma poi Trump aggiunge “Non preoccupatevi … tutto si risolverà”, rallegrandosi d’una lettera “bellissima” del presidente cinese Xi Jinping. E quando Pechino reagisce e annuncia contromisure, mentre i mercati vivono i giorni più difficili dall’inizio dell’anno e un lunedì 13 nero, il magnate minimizza: “Solo qualche diverbio”, “una controversia da poco”, l’intesa con la Cina è ancora “assolutamente possibile”, non c’è stato “un collasso dei negoziati” e i rapporti con Pechino “restano buoni” quelli con Xi “sono straordinari”.
Poi, arriva la mazzata di Huawei. Con la quale il contenzioso è aperto e aspro dal dicembre scorso, quando Meng Wanzhou, dirigente della Huawei, fu arrestata a Vancouver in Canada, perché gli Usa ne reclamano l’estradizione, accusandola di avere violato le loro sanzioni anti-Iran. La Meng è tuttora trattenuta a Vancouver, in attesa che un giudice si pronunci sulla richiesta d’estradizione, ma la Cina denuncia “irragionevoli misure coercitive che costituiscono una grave violazione di diritti e interessi legittimi di un cittadino cinese”. Il ministero degli Esteri di Pechino parla di “grave incidente politico” e chiede che la Meng sia rilasciata e possa tornare in Patria. La mossa di Trump fa apparire i cinesi paladini dei diritti umani.
Per fine giugno prima del G20 di Osaka dove, salvo clamorose sorprese, Trump e Xi dovrebbero incontrarsi, la situazione potrebbe rasserenarsi: Washington dà circa un mese di tempo a Pechino per tornare sui suoi passi e stringere quell’intesa commerciale che sembrava a portata di mano ma che è poi svanita; altrimenti scatterà l’estensione dei dazi sui prodotti ‘made in China’ ancora esenti. Robert Lighthizer, il negoziatore sugli scambi Usa, ha pubblicato i dettagli su queste nuove eventuali tariffe al 25%, per un ammontare di 300 miliardi di dollari e su oltre tremila beni. L’udienza pubblica sui nuovi dazi è fissata al 17 giugno. Inevitabili, a quel punto, ulteriori ritorsioni cinesi.
Scenari di tensione, che l’analisi del Pentagono accentua. Attualmente, Pechino ha solo una base militare al di fuori del proprio territorio, a Gibuti; ma ne starebbe progettando altre, fra cui una, s’apprende, in Pakistan, tradizionale quanto inaffidabile alleato dell’America. Altre basi cinesi potrebbero trovare collocazione nell’Asia sud-orientale, nel Pacifico occidentale, in Medio Oriente. E, un conflitto militare a bassa tensione tra Cina e Usa è già in atto nel Mar cinese meridionale.
La scelta di Trump di alzare il livello del confronto, invece di smussare le tensioni, rischia d’indurre Pechino a riavvicinarsi ancora di più a Mosca: è notizia recente un ciclo di manovre navali congiunte russo-russo-cinesi, denominate “Joint Sea 2019”, che hanno coinvolto due sommergibili, 13 navi di superficie, elicotteri, aerei. Unite dalla rivalità con gli Usa, Pechino e Mosca condividono – dicono fonti della Difesa cinese – una “partnership strategica contro un mondo unipolare”, a dominio americano. A settembre 2018, circa 3.200 soldati cinesi presero parte ai “giochi di guerra” in Siberia, le più grandi manovre mai fatte in Russia con la partecipazione di circa 300.000 militari.
Il rapporto del Pentagono è stato pubblicato dopo l’uscita d’una nota d’allarme per l’intensificarsi delle attività cinesi al di là del Circolo polare artico, che potrebbero aprire la via a una rafforzata presenza militare nella Regione, compreso lo spiegamento di sottomarini come arma di deterrenza contro un attacco nucleare.