Una spallata al regime più ‘social’ che sociale, quella tentata a fine aprile da Juan Guaidó, l’autoproclamato presidente del Venezuela, contro il presidente eletto Nicolas Maduro: inscenata più sull’agorà mediatica che sulle piazza cittadine; e, per di più, sull’agorà sbagliata, perché Guaidó s’è affidato a Twitter, che – pare – solo il 2% dei venezuelani sa che cos’è.
Così, tutto s’è risolto in una sceneggiata: Guaidó s’è fatto fotografare insieme a qualche militare dissidente, nessun alto ufficiale; Maduro mentre partecipava ad esercitazioni dell’esercito, ostentando intorno a sé la lealtà dei generali e dei soldati. E chi s’immaginava, o meglio s’illudeva, che il Venezuela potesse finalmente uscire dall’impasse istituzionale che lo sta lacerando da mesi s’è presto dovuto ricredere. Anzi, per Nicola Bilotta, analista dell’Istituto Affari Internazionali, l’affondo di Guaidó, “improvvisato e mal gestito, oltre a polarizzare ulteriormente lo scontro, potrebbe avere paradossalmente rafforzato Maduro”.
Di sicuro, il Venezuela è oggi teatro di quello che sempre Bilotta definisce “un gioco degli specchi” tra Usa e Russia: Washington con Guaidó, che si muove solo quando Trump comanda; e Mosca con Madero. I ministri degli Esteri Usa e russo ne hanno parlato lunedì scorso, incontrandosi a Helsinki, a margine di una riunione del Consiglio Artico. Gli Stati Uniti comprendono che l’uso della forza “non è necessario” in Venezuela, ha detto Serghei Lavrov, citato dalla Tass: Mike Pompeo avrebbe cioè rinnegato uno dei mantra più consolidati della posizione americana in questa crisi, “nessuna opzione è esclusa”.
Lo scenario internazionale
Per Lavrov, l’incontro con Pompeo ha contribuito “a rafforzare i progressi fatti nella conversazione” di inizio maggio fra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump, che al telefono avevano impostato una sorta di de-escalation della tensione internazionale, non solo in Venezuela. Quanto il disgelo sia destinato a durare, resta da vedere: pochi giorni prima, Trump aveva aperto un nuovo fronte anti-disarmo, ritirando la firma degli Stati Uniti dal Trattato sugli scambi di armi convenzionali (Att); e, pochi giorni dopo, ha innescato sussulti nelle borse mondiali, rilanciando la guerra dei dazi contro la Cina, cui pareva avere messo la sordina.
Di un clima di dialogo in Venezuela parla pure la stampa ufficiale cubana – L’Avana è la capitale più vicina a Caracas, per l’evidente ‘fratellanza’ tra castrismo e chavismo -: più che a quanto accade nel Paese, il quotidiano comunista Granma si riferisce ai colloqui tra Usa e Russia e anche a quanto emerso nelle conversazioni fra il presidente cubano Miguel Díaz-Canel e il premier canadese Justin Trudeau. Granma ammette che le posizioni di Cuba e del Canada “sono distanti” perché Diaz-Canel sostiene Maduro e Trudeau appoggia Guaidó, riconoscendolo come presidente ad interim. Ma Trudeau apre all’inizio di un dialogo, dopo settimane di contrapposizione e la spallata non riuscita. Il giornale cita pure la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders: lo scambio di opinioni tra Trump e Putin sul Venezuela “è stato molto positivo”.
Spiragli di dialogo e vie di fuga
Riunitosi a San José del Costa Rica martedì 7 maggio, Il Gruppo di Contatto per il Venezuela ritiene che “la priorità” nella crisi “è ora evitare un’ulteriore escalation in una situazione già estremamente tesa”. Il Gruppo è “pronto a intraprendere una missione a livello politico a Caracas per presentare e discutere opzioni concrete per una soluzione democratica e pacifica alla crisi”. C’erano, fra gli altri, a discuterne l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea Federica Mogherini e il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero.
Il comunicato del Gruppo di Contatto “ribadisce il forte rifiuto dell’uso della forza contro i civili” e “invita le forze di sicurezza venezuelane ad agire con la massima moderazione per evitare ulteriori perdite di vite”. Il Gruppo di contatto (cui partecipano, oltre all’Ue, Francia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito, con quattro Paesi dell’America Latina, Bolivia, Costa Rica, Ecuador e Uruguay) ribadisce la necessità di dare una risposta alla crisi umanitaria.
Che qualcosa si muova in Venezuela, e che il campo dei sostenitori di Maduro cominci ad avvertire timori di sconfitta, lo lasciano pensare testimonianze filtrate dal vice-presidente della Conferenza episcopale venezuelana, la Cev, Mario Moronta, secondo cui negli ultimi 20 giorni “alti dirigenti del chavismo” hanno contemplato l’idea di “chiedere asilo” alle chiese venezuelane. Pronunciando l’omelia della messa di domenica 5 maggio, il vescovo di Merida ha detto: “Alcuni chavisti bussano alla porta della Cev per sapere se avrebbero diritto di asilo nel caso di caduta del governo”. E altri vescovi si sarebbero sentiti rivolgere analoga domanda da dirigenti chavisti delle loro diocesi. Moronta ha spiegato di essere stato indotto a questa rivelazione, dopo l’attacco portato il 1 maggio dalla Guardia nazionale bolivariana (Gnb) contro la chiesa di Fátima a Mérida, dove avevano preso rifugio alcuni militanti dell’opposizione.
L’insurrezione fallita (sui social media)
A ricostruire che cosa è successo in Venezuela a cavallo tra aprile e maggio, ci aiuta Bilotta, che ne ha anche scritto su AffarInternazionali.it: eventi che potevano imprimere una svolta nel Paese dove ci sono due presidenti, che insieme non ne fanno uno nella pienezza delle sue funzioni.
“Il 30 aprile Guaidó pubblica sui social media un video dal forte impatto simbolico: vi appare circondato da soldati in divisa e insieme a Leopoldo Lopez, suo referente politico, storico leader dell’opposizione venezuelana. Lopez, arrestato dopo gli scontri del 2014 e agli arresti domiciliari dall’agosto 2017, era stato liberato – si dice – con l’aiuto di soldati in rivolta”.
L’autoproclamato presidente voleva trasmettere il messaggio di uno scollamento tra una parte dell’esercito e Maduro, accrescere la pressione sul governo e richiamare più persone nelle proteste di piazza. “Se fosse riuscito a trasmettere l’idea che una parte dell’esercito aveva disertato, o stava per farlo, Guaidó avrebbe potuto simultaneamente rafforzare la propria figura e indebolire Maduro. In caso di golpe, una chiave per il successo delle manifestazioni è l’aspettativa che la tua parte possa vincere. Se si inizia a ritenere la vittoria possibile, le persone sono più incentivate a scendere in piazza o i soldati a cambiare fazione, in una sorta di effetto domino”.
Il tentativo di Guaidó è però naufragato rapidamente. “I militari intorno a lui erano figure minori, non elementi carismatici o di potere nell’esercito ‘bolivariano’ in grado di mobilitare il popolo o altri soldati: hanno già dovuto chiedere asilo all’ambasciata brasiliana mentre Lopez si è rifugiato nell’ambasciata spagnola per evitare un nuovo arresto”.
Secondo il giornale spagnolo El Confindencial e altre fonti, Maduro e l’opposizione stavano mettendo a punto un compromesso sintetizzato in un documento in15 punti che avrebbe garantito un’uscita dignitosa all’erede di Hugo Chavez, dato garanzie ai militari e, in attesa di elezioni, affidato la presidenza ad interim a Guaidó. Il piano sarebbe stato di uscire allo scoperto il 2 maggio, dopo le mobilitazioni per il Primo Maggio, ma l’autoproclamato presidente, che temeva l’arresto, giocò d’anticipo, facendo così fallire il piano.
Washington soffia sul fuoco e il gioco degli specchi
Indiscrezioni non suffragate da conferme sicure al 100%. “Guaidò – ipotizza Bilotta – era forse persuaso di potere dare scacco matto a Maduro e al governo. Sembra confermarlo l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Venezuela, Elliott Abrams, secondo cui c’erano accordi tra alti ranghi dell’esercito e l’opposizione”. Anche il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton parlava di un’intesa con alcuni uomini chiave dell’Amministrazione Maduro: Vladimir Padrino Lopez, ministro della Difesa, Maikel Moreno, capo della Corte suprema e Ivàn Rafael Hernàndez, capo della guardia presidenziale e dei servizi di intelligence militare.
Bolton voleva forse creare un solco di sfiducia e di diffidenza nelle fila ‘chaviste’ e s’è invece ‘bruciato’ la possibilità di fare leva sui personaggi citati. Il ministro della Difesa continua a sedere accanto a Maduro nelle riprese pubbliche e l’insurrezione dell’esercito non c’è stata. “Ma – osserva Bilotta – il fatto che Maduro abbia aspettato quasi dodici ore prima di apparire in televisione e che abbia confermato l’esistenza di una sparuta ribellione, getta qualche ombra sul controllo da lui esercitato sul territorio e sugli apparati istituzionali”.
Di fatto, l’unica figura di rilievo ad avere pagato per quanto accaduto tra aprile e maggio è stato Manuel Figuera, capo dei servizi segreti, sostituito per non aver impedito la fuga di Lopez. “È difficile dire se davvero membri del governo fossero pronti a sostenere Guaidó o se invece fosse tutto un gioco di specchi architettato dai servizi segreti governativi venezuelani e russi, per forzare la mano a Guaidó lasciandogli intravvedere un sostegno che in realtà non c’era”.
Certamente, gli Stati Uniti stanno intensificando la pressione su Maduro e sui suoi sodali nell’area, cuba e il Nicaragua, definiti insieme al Venezuela “la troika della tirannia”. Donald Trump lascia l’intervento militare tra le opzioni possibili, anche se nessuno ci crede davvero, minaccia L’Avana di un embargo totale e Caracas di ulteriori sanzioni. Ma l’intelligence statunitense ritiene che siano gli attori globali come la Russia e la Cina a essere strategici per il regime ‘chavista’, piuttosto che gli alleati regionali. Fallita la spallata di Guaidó a Maduro sui ‘social’, il futuro del Venezuela – dice Bilotta – “sembra sempre più legato a fattori e volontà esterne che a dinamiche interne”.