Nessuno l’avrebbe mai detto, che si potesse essere eletti presidente degli Stati Uniti senza rendere pubblica la propria dichiarazione dei redditi, pur sbandierando la propria ricchezza. Donald Trump, nel 2016, c’è riuscito: di tutte le imprese compiute contro ogni pronostico dal magnate allora candidato e ora presidente, questa è stata senz’altro la più stupefacente. Adesso il New York Times ha tirato fuori molte delle carte finora tenute celate da Trump: si scoprono i trucchi che hanno, magari lecitamente, consentito a un imprenditore di successo di non pagare un centesimo di tasse per anni. Altro che Warren Buffett che vuole pagare più tasse, in percentuale, della sua segretaria; qui siamo di fronte a un re del mattone che paga meno tasse, in assoluto, d’un suo manovale.
I documenti ottenuti dal New York Times si fermano al 1995: già ne emerge uno schema, ma molto resta da scoprire: ci sta provando, finora senza successo, per vie legali, il Congresso; e ci sta provando, per via legislativa, lo Stato di New York, che progetta di recuperare un po’ di soldi.
Tra il 1985 e il 1994 le attività di Trump finirono in profondo rosso: cifre sull’orlo della bancarotta, con perdite per circa 1,2 miliardi di dollari. E’ quanto risulta dalle copie delle dichiarazioni fiscali presentate in quei 10 anni al fisco Usa e ora ottenute dal NYT. In otto di quei dieci anni, Trump non pagò tasse federali, avvalendosi di norme per cui gli imprenditori possono evitare di pagare il fisco sulle entrate successive riportando a passivo perdite pregresse.
Le rivelazioni del quotidiano – con Washington Post e Cnn, uno degli acerrimi nemici di Trump –s’innestano sullo scontro istituzionale in corso tra Casa Bianca e Congresso, innescato dal rifiuto del magnate di rendere note le sue dichiarazioni fiscali: una rottura rispetto a quanto fatto in passato da tutti i presidenti. Nella campagna elettorale, Trump aveva già respinto la richiesta, fattagli anche dalla sua rivale Hillary Clinton.
Se quel che scrive il NYT è tutto vero, il magnate non avrebbe alcun interesse a rendere pubbliche dichiarazioni fiscali che potrebbero nascondere qualche irregolarità, ma che getterebbero di sicuro una cattiva luce sull’immagine di uomo di affari e abile e di negoziatore efficace su cui ha costruito la sua carriera politica.
E, infatti, il presidente non incassa senza reagire: attacca, inizialmente senza citarlo, il New York Times per aver svelato le sue dichiarazione dei redditi, parlando di informazioni “molto vecchie e molto inaccurate”, e denunciandole cone ‘Fake News’. In realtà, quello che poi Trump dice suona conferma delle rivelazioni del NYT: “I costruttori negli anni 1980 e 1990, più di 30 anni fa, erano autorizzati a forti svalutazioni e ammortamenti in grado di tradursi in perdite in quasi tutti i casi”, twitta. “Si vogliono sempre mostrare perdite per motivi fiscali, quasi tutti i costruttori lo fanno, e spesso queste vengono rinegoziate con le banche: era uno sport”. Cioè, lo facevano tutti e l’ha fatto lui: che problema c’è? Nessuno, tranne che gli altri non sono divenuti presidenti degli Stati Uniti.
Il Dipartimento al Tesoro statunitense sta negando alla Camera del Congresso, che lo richiede, l’accesso alle dichiarazioni fiscali federali degli ultimi sei anni di Trump. La battaglia legale che potrebbe conseguirne rischia di finire davanti alla Corte Suprema: tempi lunghi, ma non biblici, perché la giustizia americana va di fretta. Nelle more, i democratici dello Stato di New York provano a centrare l’obiettivo con una legge che permetta alle commissioni competenti di prendere visione delle dichiarazioni dei redditi presentate dal tycoon nello Stato dov’è residente e dove sono basate le sue attività.
Quella delle tasse non è l’unica nuvola che s’addensa sulla Casa Bianca, che non riesce a sottrarsi alle perturbazioni del Russiagate, l’inchiesta ormai chiusa sull’intreccio di contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino nel 2016. Anche se il neo-ministro della Giustizia William Barr gli fa scudo in Congresso, respingendo le critiche dei democratici alla pubblicazione d’una versione parziale ed ‘edulcorata’ del rapporto del procuratore speciale Robert Mueller, il presidente ha deciso d’invocare il suo ‘privilegio esecutivo’ per evitare di dare a deputati e senatori la versione integrale del rapporto Mueller. Nel darne notizia, il Dipartimento della Giustizia ricorda che è la prima volta che Trump esercita tale potere da quando è entrato alla Casa Bianca.
Il ricorso al privilegio esecutivo è stato ufficializzato al presidente della Commissione Giustizia della Camera, Jerrold Nadler, un democratico di New York – è quasi una faida fra newyorchesi -. Sarah Huckabee Sanders, portavoce della Casa Bianca, ci è andata giù pesante: “Non adempiremo alle richieste fuori legge e sconsiderate” di Nadler, che compie “uno sfacciato abuso di potere”, mentre “gli americani meritano un Congresso che si concentri sui veri problemi”, come – è ovvio -la crisi al confine, al primo posto nell’agenda elettorale di Trump 2020.
Per la speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, Trump con le sue iniziative s’avvicina, ogni giorno di più, all’impeachment: “Sta diventando auto-incriminabile”, dice al Washington Post. Nadler, invece, parla d’una “chiara escalation” nella “sfida totale” tra Amministrazione e Congresso.
Quando è all’angolo, Trump cerca di solito di uscirne spostando l’attenzione altrove: potrebbe battere un pugno sul tavolo sull’uno o sull’altro fronte estero, commerciale – Cina e Ue – o politico – Iran o Venezuela -.