L’ennesimo atto dello scontro continuo – e mai sopito – tra l’Amministrazione Obama, il presidente Barack e pure il segretario di Stato del primo mandato Hillary Clinton, e Donald Trump si consuma a Londra, in un’aula di tribunale di Westminster. La fuga dalla giustizia di Julian Assange, giornalista, programmatore, attivista australiano, pare finita, ma l’approdo davanti alla giustizia Usa non è ancora certo. Per Trump, l’arresto di Assange potrebbe essere un passaggio scomodo: c’è sotto il nervo scoperto delle connivenze nel 2016 tra la campagna del magnate e il Cremlino.
Il presidente, che non fa mai mancare un tweet sulle vicende più disparate, questa volta tace: Assange e Wikileaks resero di fatto buoni servigi all’allora candidato Trump nella campagna 2016, pubblicando email hackerate della campagna della Clinton. E The Donald fece dei tweet “I love Wikileaks”; e ancora “Adoro leggere Wikileaks”. Ora presidente, Trump se ne lava le mani: “Non so nulla dell’arresto, non è roba mia”. Forse, c’è un’ombra di rammarico: un’arma in meno verso Usa 2020.
Assange è una icona della libertà d’informazione, ma pesanti ombre s’addensano sul sito Wikileaks, di cui è cofondatore e direttore. La diffusione di documenti sull’Afghanistan, l’Iraq e i magheggi della diplomazia statunitense hanno reso il Mondo un posto più consapevole. Ma Assange e i suoi hanno avuto una spalla sospetta nel Cremlino, specie durante la campagna presidenziale Usa 2016.
Adesso gli Stati Uniti ne chiedono l’estradizione: una prima udienza è fissata al 12 maggio, l’accusa è di pirateria informatica e cospirazione. Se condannato, Assange rischia fino a cinque anni di reclusione. Washington, che sta lavorando sul dossier da circa un anno, ha tempo sino al 12 giugno per fornire tutti gli elementi a sostegno della richiesta d’estradizione: il Dipartimento di Giustizia intende contestare al giornalista ulteriori capi d’imputazione, oltre ai due già noti.
L’accusa di cospirazione deriva dall’avere Wikileaks pubblicato documenti rubati dall’ex soldato Usa Chelsea Manning. In aula, Assange s’è detto “non colpevole”. Ma la battaglia intentata dalla Giustizia statunitense lascia freddo il presidente e il ministro competente, William Barr, che deve sovrintendere a tutta la vicenda giudiziaria. “Vedremo quello che succede, non so molto di Assange, non è la questione della mia vita”, ha frettolosamente detto Trump.
Fra le sortite pro – Assange, spicca quella del Cremlino, a sorpresa paladino della libertà di stampa: auspica che i suoi diritti “non siano violati” e critica Londra, “La mano della democrazia strangola la libertà”. Anche la relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani, Agnes Callamard è preoccupata e molti movimenti di sinistra o libertari europei prendono le difese dell’australiano e di Wikileaks. Edward Snowden, ex analista dell’intelligence Usa e gola profonda del Datagate, esiliato a Mosca, commenta su Twitter: “E’ un momento buio per la libertà d’informazione”.
Anche dopo la vittoria elettorale, Trump difese Assange, quando cominciarono ad emergere indiscrezioni – poi ufficialmente confermate dall’intelligence Usa e dall’inchiesta sul Russiagate – che furono hacker legati ai servizi segreti russi a consegnare a Wikileaks le mail di Hillary; e ci sarebbe di mezzo pure un amico e consigliere del presidente, Roger Stone, arrestato e incriminato. “Assange ha detto che anche un ragazzino di 14 anni poteva hackerare quelle mail – scriveva Trump il 4 gennaio 2017, due settimane prima dell’insediamento alla Casa Bianca – e ha anche detto che non sono stati i russi a dargli le informazioni”.