Altro che biondino. La persona che la polizia britannica ha trascinato fuori dall’ambasciata dell’Ecuador e Londra e portato a Scotland Yard è un uomo dalla barba bianca e non curata, che dimostra più dei suoi 47 anni. La fuga dalla giustizia di Julian Assange, giornalista, programmatore e attivista australiano, appena privato della cittadinanza ecuadoriana che gli era stata concessa, è così finita ieri mattina.
Assange è una icona della libertà d’informazione, ma pesanti ombre s’addensano sul sito Wikileaks, di cui è cofondatore e direttore. La diffusione di documenti sull’Afghanistan, l’Iraq e i magheggi della diplomazia statunitense hanno reso il Mondo un posto più consapevole. Ma Assange e i suoi hanno avuto una spalla sospetta nel Cremlino, specie durante la campagna presidenziale Usa 2016.
Poche ore dopo, nel primo pomeriggio, una corte di Westminster lo ha riconosciuto colpevole d’avere violato le condizioni della libertà provvisoria di cui godeva nel 2012: non si presentò all’udienza e si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador per sottrarsi all’estradizione in Svezia, dove doveva essere giudicato perché accusato di violenza sessuale da due donne. Temeva che la Svezia l’avrebbe poi estradato negli Stati Uniti.
In attesa della sentenza, i giudici hanno disposto che Assange resti in carcere: rischia una condanna fino a 12 mesi. Ma il 2 maggio ci sarà un’altra udienza, sulla richiesta di estradizione negli Usa: l’accusa è di pirateria informatica e cospirazione. Se condannato, rischia fino a 5 anni di reclusione. Washington ha tempo sino al 12 giugno per presentare tutti gli elementi a sostegno della richiesta d’estradizione: il Dipartimento di Giustizia prevede di contestare al giornalista ulteriori capi d’imputazione, oltre ai due già noti.
L’accusa di cospirazione deriva dall’avere Wikileaks pubblicato documenti rubati dall’ex soldato Usa Chelsea Manning. In aula, Assange s’è detto “non colpevole”. Jen Robinson, una sua legale, conferma l’iter giudiziario, ma denuncia violazioni del diritto internazionale da parte dell’Ecuador e del Regno Unito.
L’operazione è scattata dopo la revoca da parte del governo di Quito dell’asilo politico a suo tempo concessogli. Mentre veniva portato fuori dall’ambasciata, il giornalista ha detto: “E’ ingiusto, non sto lasciando l’ambasciata di mia volontà … Il Regno Unito non ha civiltà”; e ha lanciato un appello ai cittadini britannici, “Dovete resistere”.
L’arresto è stato confermato dal ministro dell’Interno Sajid Javid. Il premier Theresa May ha “dato con piacere la notizia” durante una seduta della Camera dei Comuni. “Non è un eroe, s’è sottratto alla verità per anni ed è giusto che il suo futuro venga ora deciso dal sistema giudiziario britannico”, ha detto il ministro degli Esteri Jeremy Hunt: “Nessuno è al di sopra della legge”.
La settimana scorsa Wikileaks aveva anticipato che Assange sarebbe stato cacciato dall’ambasciata e arrestato dalle autorità britanniche. Il governo di Quito stava revocandogli asilo e cittadinanza: una mossa che divide l’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa e l’attuale, Lenin Moreno. Il 10, Wikileaks aveva denunciato un’operazione di spionaggio nell’ambasciata ai danni di Assange e aveva segnalato che lo “sfratto” era imminente.
Assange aveva fatto richiesta di asilo come “perseguitato politico”, poiché le autorità britanniche volevano estradarlo in Svezia, dove doveva essere processato per le accuse mossegli da due donne. Il procedimento svedese s’era poi arenato, ma, ora, un’accusatrice ne chiede la riapertura.
Fra le sortite pro – Assange, spicca quella del Cremlino, a sorpresa paladino della libertà di stampa: auspica che i suoi diritti “non siano violati” e critica Londra, “La mano della democrazia strangola la libertà”; ma anche la relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani, Agnes Callamard è preoccupata. Edward Snowden, ex analista dell’intelligence Usa e gola profonda del Datagate, esiliato a Mosca, commenta su Twitter: “è un momento buio per la libertà d’informazione”.
Singolare la posizione degli Usa. Assange era un grande nemico dell’Amministrazione Obama, ma, nella campagna presidenziale 2016, la sua organizzazione ha reso buoni servigi all’allora candidato Donald Trump, pubblicando email hackerate della campagna di Hillary Clinton. Trump presidente se ne lava le mani: “Non so nulla dell’arresto, non è roba mia”. Un’arma in meno verso Usa 2020.