La Gran Bretagna pare un pugile suonato: un Paese che domenica 24 marzo manda un milione e più persone in piazza a protestare contro la Brexit; e lunedì 1° aprile ne racimola appena 30 mila, fra cui il serafico Nigel Farage, per manifestare a favore della Brexit, che un referendum popolare aveva chiesto 33 mesi or sono. O, forse, suonato è solo il Parlamento, i Comuni a Westminster, culla della democrazia moderna, rappresentativa e liberale, che boccia qualsiasi proposta: otto lunedì, a raffica, uscire o rinviare, come e a quando; l’unica certezza, in sé contraddittoria, è che gli inglesi vogliono andarsene con un’intesa, ma bocciano l’intesa che hanno negoziato. O, forse, infine, suonata è solo lei, Theresa May, premier per caso, anzi premier in virtù della Brexit, che spazzò via il temerario David Cameron: quella la cui frase feticcio è un ‘nonsense’, o il verso d’un haiku: “Brexit means Brexit”.
Di voto in voto, questo Paese, questi politici, questo Governo suonati ciondolano groggy verso l’ennesimo appuntamento decisivo, che non sarà tale: il Consiglio europeo straordinario del 10 aprile, prodromo di un’uscita senza accordo, il ‘no deal’, che terrorizza la City, l’industria e ormai anche Mr. Smith e la sua famiglia, o di un ulteriore rinvio di corta durata, nella speranza che in pochi giorni si trovi una soluzione cercata per quasi tre anni. Il 23 giugno 2016, il giorno del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è lontanissimo, ma pare che Londra e il resto del Paese si siano resi conto solo nelle ultime settimane di cosa deve succedere.
Intendiamoci!, il compito della May, o di chiunque ci fosse stato o ci sarà al suo posto, non è facile: sottrarre la Gran Bretagna ai vincoli dell’appartenenza all’Unione senza fargliene perdere vantaggi e libertà (di circolazione delle merci e dei capitali, visto che quella delle persone crea problemi ai sudditi di Sua Maestà). Tutte le formule fin qui ipotizzate hanno pro e contro e lasciano un ‘ventre molle’ al confine dell’Eire con l’Ulster, nella verde Irlanda: se lì la frontiera resta aperta, bisogna poi prevedere una barriera interna al Regno che non sarebbe più Unito; se lì la frontiera si chiude, possono riesplodere tensioni superate da vent’anni. Lo sanno i britannici; e lo sanno gli europei, che sono riusciti a restare compatti in tutti gli sviluppi dell’intricata trattativa e continuano ad esercitare pressione su Londra, mostrandosi attrezzati ad ogni evenienza, anche al ‘no deal’, mentre gli interlocutori non lo sono.
L’ultimo – finora – sussulto di questa brutta storia che potrebbe ancor avere un lieto fine ce lo racconta, come sempre, Alessandro Logroscino, il corrispondente dell’ANSA dalla Gran Bretagna, che ci vive dentro: per lui, il discorso della May al Paese fatto martedì pomeriggio, dopo che i Comuni avevano bocciato tutte le opzioni, “è un segnale di resa e un’apertura a una Brexit soft”, che vorrebbe dire uscire dall’Ue senza uscirne davvero.
“La svolta – dice Logroscino – arriva sull’orlo del baratro, con una Gran Bretagna a rischio caos e il sistema politico allo sbando, paralizzato da veti e bocciature incrociate”: la May annuncia d’essere disponibile a un compromesso faccia a faccia con il leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn; e prospetta l’imminente richiesta di un ulteriore slittamento dell’uscita dall’Ue, solo 40 giorni dal 12 aprile al 22 maggio per evitare il paradosso d’una partecipazione britannica alle elezioni europee.
Funzionerà? Dipende dal faccia a faccia tra la May e Corbyn; e dalla risposta dei leader europei, convocati d’urgenza a Bruxelles mercoledì 10 aprile – ma le prime reazioni di Emmanuel Macron e Angela Merkel sono cautamente positive: attendere 40 giorni si può, se ne vale la pena -. E’ chiaro che i giochi non sono più tra Londra e Bruxelles, ma sono tutti interni al Regno Unito: May o non May (e chi al posto della May?), elezioni o referendum bis, ‘deal’ con l’Ue o ‘no deal’.
La ‘mini svolta’ del 2 aprile è stata suggellata da una riunione di governo maratona, durata oltre sette ore. Alla fine, la May ha preso una decisione, “a costo di intervenire con un taglio netto sulle divisioni interne alla sua compagine tra i ‘brexiteers’, pronti a sfidare la sorte del ‘no deal’, uscendo il 12 aprile, e moderati decisi a impedirlo in ogni modo o quasi”. La premier afferma: “Ho sempre creduto che avremmo potuto fare di un no deal un successo, a lungo termine”, dando un contentino ai primi; ma aggiunge che “uscire con un accordo” resta “la migliore soluzione”.
La strada non passa più per l’azzardo di ripresentare una quarta volta il testo dell’intesa raggiunta con Bruxelles a novembre e bocciata tre volte dai Comuni. “Per rompere l’impasse – annuncia la May – offro al leader dell’opposizione di sedersi con me per cercare di condividere un piano, cui saremo entrambi vincolati, che ci assicuri di lasciare l’Unione con un accordo”.
Per arrivarci, ci sarà “bisogno di un’ulteriore estensione dell’articolo 50 – cioè del negoziato, ndr – che sia la più breve possibile” e che sia finalizzata “ad assicurare un’uscita tempestiva e ordinata” dall’Ue. “Questo dibattito, questa divisione, non possono trascinarsi oltre”, afferma la premier, appellandosi finalmente “all’unità nazionale per realizzare l’interesse nazionale”, mentre finora forze politiche e fazioni socio-economiche si sono spaccate al loro interno.
Corbyn s’è subito detto “molto felice” di incontrare la May, raccogliendone quindi la mano tesa. Il compromesso dovrà essere raggiunto in tempo utile per consentire al Parlamento britannico d’approvare una legge ad hoc “in modo che la Gran Bretagna non partecipi alle elezioni europee”, in programma il 23 e 26 maggio. I contenuti del patto restano inevitabilmente vaghi: la May pensa che l’intesa di divorzio già sottoscritta con Bruxelles vada accettata così com’è, anche se è stata bocciata tre volte dai Comuni; e che il negoziato coi laburisti debba riguardare le modifiche della dichiarazione allegata sulle relazioni future con i 27.
Se “un approccio comune non dovesse essere trovato” tra maggioranza e opposizione, il governo e i laburisti s’impegneranno ad accettare l’indicazione che emergerà da una nuova serie di voti sulle opzioni possibili da mettere in calendario già “la settimana prossima”. Il punto di caduta più plausibile del dialogo May-Corbyn si ritrova nei voti di lunedì a Westminster: tutte le soluzioni suggerite sono state bocciate, ma quella che prevede una Brexit ‘annacquata’ dalla permanenza nell’unione doganale solo per tre suffragi, che possono essere recuperati fra i conservatori non oltranzisti.
L’idea richiama uno dei punti cruciali del piano B evocato da tempo dal Corbyn, ma è stata rielaborata, nell’ultima versione, da un veterano tory moderato, Ken Clarke: risolve senza traumi la ‘questione irlandese’ e appare accettabile ai 27, oltre che alla City dove collera e panico s’intrecciano da giorni. Però fa infuriare gli euroscettici, primo fra tutti l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson, con il rischio di innescare una resa dei conti interna al partito conservatore, anche se Logroscino giudica improbabile “una congiura immediata” contro la debole premier: vi sono ministri e notabili del partito pronti ad accettare una Brexit morbida, arrendendosi all’aritmetica parlamentare; e altri decisi a gridare al tradimento, ipotizzando dimissioni di massa. Questa storia non è ancora finita:la Gran Bretagna è suonata, ma non ancora ko; e, magari, non ci va neppure.