C’erano una volta ‘tutti gli uomini del presidente’, quelli del Watergate – che finì con le dimissioni del presidente Nixon, giusto prima che ne scattasse l’impeachment -; e anche quelli del Russiagate, perché diversi collaboratori del magnate candidato alle presidenziali 2016 sono già stati indagati (e alcuni condannati). Ci sono ora ‘tutti gli affari del presidente’, emersi nell’inchiesta sui contatti tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino nel 2016, prima e dopo il voto che portò l’imprenditore showman alla Casa Bianca. Venerdì sera, a Borse chiuse e palazzi della politica deserti per il week-end, il procuratore speciale Robert Mueller ha depositato il suo rapporto finale, il più atteso nella storia d’America, forse dopo il rapporto Warren sull’assassinio Kennedy e quello pruriginoso sul ‘caso Lewsinski’.
Nel suo documento, sulle interferenze russe in Usa 2016, Mueller non raccomanda incriminazioni, dopo avere già contribuito a mandare in carcere l’ex capo della campagna di Trump Paul Manafort e l’ex avvocato personale del magnate presidente Michael Cohen.
Unanimi, i media americani sollecitano, in queste ore, la pubblicazione del rapporto, consegnato al segretario alla Giustizia William Barr e il cui contenuto, per il momento, non sarebbe neppure noto al presidente, che, ieri, s’è riunito a consulto con i suoi legali nella tenuta di Mar-a-lago in Florida (non molto a lungo: a metà mattina, se n’è andato a giocare a golf). Trump e Barr sono amici e Trump ha messo Barr a quel posto proprio per gestire questo momento.
La consegna del rapporto conclude un’indagine durata 22 mesi e costata 25 milioni di dollari, che ha gettato molte ombre sull’Amministrazione Trump. Il ministro della Giustizia deve decidere se e in che misura rendere pubbliche le conclusioni. La Camera, a maggioranza democratica, ha votato nei giorni scorsi una risoluzione in cui reclama la diffusione del documento. Un’ informativa sarà sicuramente fornita ai parlamentari nelle prossime ore; e, a quel punto, se non prima, cominceranno a uscire le indiscrezioni.
Dopo la consegna del rapporto, il vice di Barr Rod Rosenstein, sempre al suo posto, nonostante sia costantemente sul punto di essere cacciato o di dimettersi, ha chiamato Mueller per ringraziarlo: fu lui a insediarlo il 17 maggio 2017, poco dopo il licenziamento del capo dell’Fbi James Comey, che non voleva ‘andarci leggero’ nell’inchiesta, come gli chiedeva Trump.
Per il New York Times, il rapporto segna il “momento della resa dei conti per Trump e per Mueller, il Congresso, i democratici, i repubblicani e i media; insomma, per l’intero sistema”; ed è “un test per la sopravvivenza della governance americana”. Il documento “trasformerà il panorama politico”: può alimentare le pressioni per un impeachment del presidente ma pure dargli il modo di vendicarsi. Nello staff di Trump c’è chi canta vittoria: “Abbiamo vinto. I democratici sono nell’imbarazzo…”.
L’inchiesta Russiagate si articola in diversi filoni. L’azione anti-Hillary Clinton, la rivale di Trump al voto, di hacker russi e di Wikileaks e la manipolazione dei social; il negoziato per costruire a Mosca una Trump Tower; l’incontro con emissari russi nella Trump Tower a New York; i contatti, un centinaio, con emissari russi e con altri funzionari stranieri; il sospetto di ostruzione alla giustizia che grava, in particolare, sul presidente. Oltre a Manafort e Cohen, i personaggi più vicini a Trump coinvolti sono il suo amico e consigliere Roger Stone, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, il braccio destro di Manafort Rick Gates.
Di sicuro, per Trump i problemi giudiziari non sono finiti. Russiagate a parte, i giudici di New York stanno indagando sulla Trump Organization e sulla campagna 2016 per vagliare eventuali violazioni alle norme sui finanziamenti elettorali, e sull’organizzazione della cerimonia d’insediamento. Inoltre, i democratici alla Camera hanno sotto inchiesta le dichiarazioni dei redditi di Trump – primo presidente a non pubblicarle –, la concessione al genero Jarred Kushner e ad altri familiari del nulla osta di sicurezza della Casa Bianca; i legami d’affari con la Deutsche Bank e i contributi giunti a Trump da governi stranieri.