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Usa 2020: la prima volta senza un/a Clinton dal 1988

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Quanto vale una Hillary Clinton del 2016 al cambio del 2020? Mille dollari, se è stampigliata dietro le sbarre su una banconota da un dollaro con tanto di autografo di Donald Trump. Chi ha pensato di mettere all’asta online il dollaro taroccato, ‘memorabilia paccottiglia’ della campagna 2016, finirà col fare un buon affare: c’è ancora tempo per rilanciare ed è probabile che le offerte salgano ancora.

La banconota è un rimasuglio di quando Hillary correva per la Casa Bianca. La gente, ai comizi del suo rivale, scandiva ‘Lock her up’, mettetele le manette, accusandola dei peggiori misfatti (per altro mai compiuti). Un’era fa: la campagna presidenziale 2020 sarà, negli Stati Uniti, la prima dal 1988 senza un Clinton di mezzo, che si tratti di Bill o di Hillary, in attesa che Chelsea, per ora impegnata a fare la mamma e l’imprenditrice, decida se e quando immischiarsi.

Con una dozzina di democratici in corsa per la nomination – e saranno molti di più, a conti fatti -, l’annuncio che Hillary non scenderà in lizza, fatto dal più clintoniano dei clintoniani, John Podesta, cancella i dubbi di un ennesimo tentativo dell’ex first lady di scalare la Casa Bianca, dopo l’amaro in bocca lasciatole dalla sconfitta nel 2016, quand’era arrivata a un passo – anzi, tre milioni di voti oltre quel passo – dal rompere il soffitto di cristallo che si frappone fra una donna e la presidenza degli Stati Uniti.

Per storia, tradizione, successi, soprattutto per fortune cumulate, i Clinton restano indietro rispetto alle Grandi Famiglie che hanno fatto la storia degli Usa nel dopoguerra, i Kennedy – un presidente, ma sarebbero stati due se un assassino non avesse fermato Robert nel 1968, un ministro, un seggio al Senato quasi ininterrottamente per quasi 60 anni (prima John, poi Ted) – e i Bush – un senatore, due presidenti, due governatori -.

Il lungo flirt tra la famiglia Clinton e la Casa Bianca inizia con le elezioni del 1988, quando tutti s’aspettano che Bill, giovane (42 anni) e ambizioso governatore dell’Arkansas, con una moglie. Hillary, persino più ambiziosa di lui, si candidi alla nomination, dopo che Mario Cuomo si nega e Gary Hart finisce fuori gioco per un’infedeltà coniugale. I media ipotizzano il ticket Bill presidente – Hillary governatrice (dell’Arkansas), ma non se ne fa nulla: Bill subodora la sconfitta e appoggia il governatore del Massachusetts Michael Dukakis, di origine greca, poi battuto da Bush senior. Clinton pronunciò il ‘key speech’ della Convention democratica: un onore poi toccato ad Obama nel 2004.

Quattro anni dopo, quando scese in campo, Bill era già un piacione capace di cogliere e assecondare gli umori del pubblico, simpatico e sorridente: si sarebbe installato alla Casa Bianca per otto anni, battendo nel ’92 il presidente in carica George W.H. Bush e nel ’96 l’eroe di guerra Bob Dole – lui, il primo presidente nato dopo la Seconda Guerra Mondiale e il primo imboscato del Vietnam divenuto ‘comandante in capo’ -.

Nel 2000, i Clinton non erano candidabili: lui non più, avendo esaurito i due mandati concessigli dalla Costituzione; lei non ancora, essendo troppo fresca la sua esperienza di first lady. Hillary, per farsi un curriculum politico, si candidò a senatore dello Stato di New York e vinse. In corsa, c’era però il vice di Bill per otto anni alla Casa Bianca, Al Gore, che provò a prendere le distanze dal suo boss che proiettava intorno a sé l’alone elettoralmente negativo dello scandalo Lewinski. 250 voti in Florida o giù di lì, nonostante mezzo milione in più di voti popolari in tutta l’Unione, decretarono la sconfitta di Gore e la vittoria di Bush jr, che così riscattò il padre.

Nel 2004, i Clinton, che controllavano il Partito democratico, vollero la candidatura d’un loro clone, John Kerry, con gli handicap d’essere intellettualmente ‘aristocratico’ e meno simpatico di Bill e d’essere stato in Vietnam, tornandone con tre onorificenze. L’America, ancora sotto la cappa dell’11 Settembre 2001, rielesse Bush jr.

Nel 2008, Hillary decise che era ora di provarci, ma si scoprì la strada sbarrata, dentro il suo partito, da Barack Obama, che i Clinton avevano voluto facesse il ‘key speech’ alla convention 2004. L’ex first lady ed ex senatrice si riciclò da segretario di Stato nel primo mandato d’Obama. Dimessasi, lasciò il posto a Kerry, in quel sistema di ‘revolving doors’ che è spesso la politica americana, cominciando a prepararsi per un ritorno in campo nel 2016.

Che ci fu e fu – quasi – trionfale, nonostante lo scandalo, artificioso, dell’emailgate – l’avere usato un account privato, quand’era segretario di Stato, invece di quello ufficiale più protetto – e l’azione di disturbo interna di Bill Sanders, senatore del Vermont, che all’età di 75 anni era un homo novus rispetto a quella signora di 69 anni che flirtava con il potere da una vita. Fino al fatale 8 novembre, quando Trump le prese la vittoria e la Casa Bianca.

Stavolta, Bill e Hillary sono entrambi ‘fuori gioco’: lui non è più in grande forma, lei ha capito che è aria di gente nuova più che di grandi ritorni. Ma non è affatto escluso che un, anzi una, Clinton riappaia sulla scena politica Usa: Chelsea, che visse l’adolescenza alla Casa Bianca, dall’età dell’apparecchio quella del college, una laurea a Stanford e un master a Oxford, ha i geni giusti ed è ben allenata: ha fatto con la madre campagne elettorali nel 2000, 2008 e 2016. Se vale la regola dell’otto, sarà in lizza nel 2024, quando avrà 44 anni. Per ora, fa la moglie d’un banchiere ebreo, Marc Mezvinsky, e la mamma di Charlotte, 5 anni, e Aidan, 3; scrive libri per bambini – soprattutto bambine -; e guadagna soldi come l’imprenditrice.

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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