Bernie Sanders ci riprova: a 77 anni compiuti (e ne avrà 79 nell’Election Day, il 3 novembre 2020), il senatore socialista e indipendente del Vermont, che nel 2016 impegnò Hillary Clinton in un testa a testa nelle primarie democratiche, tenta di nuovo di ottenere la nomination per la Casa Bianca.
Questa volta, non parte da outsider, ma da nonno: non gode dell’effetto sorpres;a e non ha neppure il fattore novità; anzi, rischia di subire il logoramento del ‘già visto’. Alcuni dei suoi ‘sanderisti’ della campagna 2016 corrono per conto loro, come la senatrice delle Hawaii Tulsi Gabbard; altri, più giovani, gli saranno magari accanto, ma si sono ormai messi a fare politica in proprio, come l’ambiziosa deputata di New York Alexandria Ocasio-Cortez.
Sanders annuncia d’essere di nuovo in corsa con una mail ai suoi sostenitori: “La nostra campagna non è solo per sconfiggere Donald Trump“, sostiene il senatore progressista; “La nostra campagna è per trasformare il nostro Paese e per creare un governo basato sui principi della giustizia economica, sociale, razziale e ambientale”. Dell’attuale presidente, dice che è “un imbarazzo per il Paese”, “un bugiardo patologico”, “un razzista”.
Parole diffuse mentre l’Unione è in fermento per la decisione del presidente di proclamare lo stato d’emergenza nazionale, così da potere stornare voci di spesa e usarle per costruire il muro anti-migranti al confine con il Messico. Un gruppo di 16 Stati, fra cui i due più popolosi, la California e lo Stato di New York, ha presentato ricorso davanti a una corte federale a San Francisco, sostenendo che il presidente non ha il potere di deviare somme da un capitolo di spesa all’altro, perché questa è una prerogativa costituzionale del Congresso. Il fermento politico diventa giuridico sul fronte del Russiagate, dove c’è la sensazione che il procuratore speciale Robert Mueller possa dare presto battere un colpo.
L’annuncio della candidatura di Sanders non sorprende e conferma come, in questa campagna, s’affrontino due generazioni di democratici: i ‘veterani’ alla Sanders, appunto, che è l’indipendente che ha seduto più a lungo al Congresso, dal 1990 al 2007 come deputato e dal 2007 a oggi come senatore – due mandati pieni -, o come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, o l’ex vicepresidente di Barack Obama, Joe Biden, che deve ancora dichiarare le sue intenzioni.
Dei ‘grandi vecchi’ del partito democratico, ha finora dato forfait solo Hillary Clinton, che sarebbe stata al terzo tentativo, dopo quelli del 2008 – battuta da Obama nelle primarie – e del 2016 – battuta da Trump al voto -.
Accanto, anzi contro i ‘grandi vecchi’, che, anche quando non lo sono, come Sanders e la Warren, rischiano di essere percepiti come esponenti dell’‘establishment’ democratico, c’è una squadretta, ancora in formazione, di quarantenni e cinquantenni: i più quotati sono i senatori della California Kamara Harris, 54 anni, e del New Jersey Cory Booker, 49 anni, in attesa che decida se candidarsi l’ex deputato del Texas Beto O’Rourke, 46 anni. In lista d’attesa outsiders e miliardari, come l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg.
Nato e cresciuto a Brooklyn, animatore negli anni dell’Università a Chicago –prima del ’68- di lotte contro la discriminazione razziale e per i diritti civili, Sanders si diede alla politica fin da quando s’insediò nel Vermont: prima senza successo, poi nel 1981 divenendo sindaco di Burlington, la città più popolosa dello Stato, con un margine di appena dieci voti.
Sindaco per tre mandati, arrivò sul Campidoglio di Washington nel 1991: otto mandati alla Camera, due al Senato e un terzo ottenuto senza avversari nel voto di midterm del 6 novembre 2018 e appena cominciato. Socialista e indipendente, ha quasi sempre votato con il partito democratico ed è spesso stato decisivo per assicurare ai democratici la maggioranza in scrutini in bilico.
Sconosciuto al grande pubblico, conquistò popolarità nelle presidenziali del 2016: partito ad aprile del 2015 – questa volta, parte prima – tra lo scetticismo di chi pensava a una passeggiata di Hillary, vinse le primarie in 23 Stati e si aggiudicò il 43% dei delegati, salvo poi fare campagna contro Trump (e, quindi, per la Clinton).
Capace di suscitare l’entusiasmo dei suoi sostenitori, i ‘sanderisti’, fermo nel rifiutare finanziamenti dai colossi dell’economia o della finanza, puntò su una sua “rivoluzione politica”. Sanders è contro le disuguaglianze sociali e gli effetti nefasti della globalizzazione, è a favore della sanità pubblica, dell’istruzione (anche universitaria) gratuita, dei congedi parentali: tutte cose scontate in Europa, molto meno in America -.
In politica estera, intende ridurre le spese militari, promuovere la diplomazia e la cooperazione e dare più peso alle norme sull’ambiente e ai diritti dei lavoratori nei negoziati commerciali. Tutt’altra musica che quella di Trump.