Gli avrà anche reso grossi servigi in campagna elettorale. E, magari, continuerà a essergli fedele nell’ora più buia, adesso che le porte del carcere gli si aprono davanti. Ma Paul Manafort rischia d’arrecare a Donald Trump danni gravissimi nel Russiagate, cioè l’indagine sull’intreccio di contatti tra il team del magnate ed emissari del Cremlino: con le sue bugie e le sue reticenze, avalla l’impressione che ci sia molto da nascondere.
L’ex responsabile della campagna presidenziale 2016, allontanato dall’incarico per incidenti causati dai suoi modi bruschi, ha “intenzionalmente mentito e reso false dichiarazioni” agli agenti federali, al procuratore speciale Robert Mueller e al gran giurì, dopo essersi impegnato a cooperare con loro e avere così ottenuto uno sconto di pena.
Avendo un giudice federale certificato che Manafort ha rotto il patto di collaborazione con Mueller, il procuratore non è più tenuto a proporre una riduzione di pena per l’ex lobbista internazionale, già giudicato colpevole di malversazioni finanziarie e passibile, fino a ieri, di un massimo di 10 anni di prigione – adesso, potranno essere di più -.
L’ex capo della campagna di Trump s’era dichiarato colpevole, fra l’altro, d’avere cercato di celare contatti con l’ambasciata di Russia a Washington, prima dell’insediamento, il 20 gennaio 2017, del 45.o presidente degli Stati Uniti. Manafort aveva in particolare rapporti con Konstantin Kilimnik, figura legata ai servizi segreti di Mosca e suo partner in campagne elettorali per elementi pro-russi nell’Europa orientale e, in particolare, in Ucraina.
Kilimnik, 48 anni, ha sempre negato di essere un uomo del Gru, l’intelligence militare russa, che avrebbe gestito i tentativi russi d’interferire nelle elezioni presidenziali usa 2016.
Manafort, 69 anni, doveva collaborare con l’Fbi sul l Russiagate, ma ha mentito su Kilimnik e pure su un pagamento effettuato a uno studio legale. E ora attende di sapere la pena che dovrà scontare, dopo essere stato condannato per frode bancaria e fiscale, mentre ancora attende il verdetto in altri processi.
Il Russiagate fa vittime nel team di Trump, ma, per il momento, lascia indenne il presidente. In una intervista alla Cbs, l’ex capo ad interim dell’Fbi Andre McCabe conferma che, una volta licenziato James Comey, nella primavera 2017, in incontri al Dipartimento di Giustizia si evocò la possibilità di rimuovere Trump in base al 25 emendamento della Costituzione (incapacità d’esercitare poteri e doveri del suo ufficio, ndr). McCabe aprì un’inchiesta sul magnate per ostruzione alla giustizia e collusione con Mosca. E l’allora vice-segretario alla Giustizia Rod Rosenstein pensava di registrare in segreto il presidente.
Novità anche su Michael Cohen, l’ex avvocato personale di Trump, condannato a tre anni di carcere per false dichiarazioni al Congresso, evasione fiscale e violazione della legge elettorale – comprò il silenzio di due ex amanti del magnate per non comprometterne la campagna presidenziale -. Cohen testimonierà davanti a tre commissioni parlamentari, prima di entrare in prigione il 6 marzo: parlerà solo della sua esperienza personale con il presidente e non affronterà temi del Russiagate.
Le indagini tornano a sfiorare Jared Kushner, il ‘primo genero’, marito di Ivanka, la ‘prima figlia’ del presidente Trump. Il cui comitato elettorale ha speso nel 2018 quasi 100 mila dollari per pagare le spese legali di Kushner, contro il quale non è stata finora formalizzata alcuna accusa e la cui fortuna è stimata in oltre 300 milioni di dollari – i soldi per pagarsi l’avvocato li ha-.