Più s’avvicina la data del 29 marzo, più la Brexit sembra allontanarsi- Eppure, la data dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è lì, a quaranta giorni: una quaresima di passione e d’angoscia, dove non ci sono sprazzi di verde, il colore dell’ottimismo, della speranza, dell’Irlanda (quell’Irlanda sulla cui la frontiera tra Eire e Ulster molto si gioca).
La premier britannica Theresa May continua a spostare più in là la data del confronto con i Comuni, dopo avere perso a gennaio il primo round sull’intesa negoziata con i 27 partner Ue e sonoramente bocciata dai deputati a Westminster. E i cittadini britannici danno l’impressione di rendersi conto solo ora di quanto costerà loro andarsene dall’Unione.
C’è di che dare ragione a Donald Tusk, il presidente polacco del Consiglio europeo, che desta scandalo auspicando che i fautori della Brexit brucino all’inferno, per avere innescato e fomentato l’uscita dall’Ue senza avere né un piano né un’idea su come attuarla. Non a caso Nigel Farage, leader dello Ukip e figura chiave della campagna Leave, si fece subito da parte dopo il referendum del 23 giugno 2016.
Nel tunnel del ‘no deal’
E mentre la Gran Bretagna si incarta, più con se stessa che con gli interlocutori europei, fermi e più compatti e che mai nel ripetere che l’accordo c’è e non si cambia, Istituzioni comunitarie e governi portano avanti i preparativi per affrontare lo scenario di una Brexit senza intesa, il peggiore per tutti. Questa settimana, la Commissione europea ha, per esempio, adottato proposte per mitigare l’impatto sul trasporto ferroviario nel Tunnel sotto la Manica: obiettivo, garantire validità alle autorizzazioni di sicurezza per un periodo di tre mesi, per dare il tempo di concordare soluzioni a lungo termine, nel rispetto della legislazione dell’Ue. La misura è subordinata al mantenimento, da parte di Londra, di standard di sicurezza identici ai requisiti attuali.
Anche in Italia, si s’interroga sugli effetti della Brexit, con il pensiero soprattutto agli italiani che vivono e lavorano a Londra e altrove in Gran Bretagna, oltre mezzo milione: mercoledì 13 febbraio, il Comitato permanente della Camera sugli Italiani nel mondo e la promozione del sistema Paese ha dunque raccolto informazioni sulle prospettive dei connazionali residenti nel Regno Unito. Ci si muove, come spesso, tardi e, apparentemente, senza una cabina di regia.
Un altro rinvio, a fine mese
All’inizio di una settimana che doveva essere cruciale –l’ennesima-, la May ha chiesto alla Camera dei Comuni più tempo per arrivare ad un nuovo accordo con la Ue sulla Brexit, impegnandosi a che il 26 febbraio, se l’intesa non sarà raggiunta prima, il governo farà una dichiarazione in Parlamento, su cui si discuterà e si voterà il 27. I negoziati sono in una fase “decisiva”, ha sostenuto la premier, ribadendo che il suo governo non vuole lasciare l’Unione senza un accordo.
La Gran Bretagna “sta vivendo la più grave crisi di questa generazione, ma il governo si preoccupa di guadagnare tempo e si presenta di nuovo qui con scuse e richieste di rinvii”, le ha replicato Jeremy Corbyn, accusando la May di lasciare passare le settimane per arrivare a un momento in cui i deputati si sentiranno praticamente “ricattati” e costretti ad accettare l’accordo bocciato a gennaio.
Riferendo dei colloqui avuti tra gennaio e febbraio a Bruxelles, la May ha ricordato d’avere chiesto, tra l’altro, garanzie su meccanismi per scongiurare l’attivazione del backstop sul confine irlandese, la clausola che praticamente lascerebbe l’Ulster nell’Ue e ‘fuori’ dal Regno Unito. Con Tusk, dopo la battuta sull’inferno, il clima era gelido; e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, non è stato più conciliante: l’Ue non intende riaprire l’intesa sull’uscita della Gran Bretagna, anche se le consultazioni proseguiranno. Nel Parlamento di Strasburgo, Michel Barnier, il negoziatore dell’Ue, ha ribadito che le discussioni vanno avanti, ma che la trattativa non è stata riavviata.
Un’economia britannica più ferma dei negoziati
Su questo punto, l’Ue appare dunque decisa e coesa. Forse anche contando sull’effetto panico che può impadronirsi della May e dei britannici, se essi guardano agli ultimi dati economici: facendo auto-ironia, The Guardian, che non è mai stato una voce del Leave, constata come “il dividendo della Brexit” – quello che annunciavano i ‘brexiteers’ – sia evaporato, ammesso che ci sia mai stato.
L’economia britannica è cresciuta dell’1,4% l’anno scorso: è il ritmo più lento dal 2012, cioè dall’uscita dal tunnel della crisi; e l’economia s’è addirittura contratta a dicembre: in Europa, solo l’Italia fa peggio – e non è un conforto, per i ‘figli d’Albione’ -.
I numeri fanno emergere i rischi economici insiti nella Brexit, specie se questa avvenisse ‘no deal’, senza un accordo. Tutti gli economisti concordano che uno scenario ‘no deal’ danneggia soprattutto la Gran Bretagna, ma che i suoi effetti saranno percepiti in tutta l’Unione. E sul Continente, infatti, le ‘piazze degli Affari’ si preparano ad affrontare situazioni di caos nei porti e negli aeroporti; e c’è pure chi s’aspetta di trarre vantaggio dalla fuga delle aziende dalla Gran Bretagna, offrendo loro sedi sicure. Milano, in questo contesto, sarebbe una meta appetibile, non fosse l’Italia in preda all’incertezza funzionale che peggiora la tradizionale diffidenza nei nostri confronti.
Un campanello d’allarme e forse qualcosa in più
I dati sull’economia britannica sono stati un campanello d’allarme e forse qualcosa più, riferisce Alessandro Logroscino, il corrispondente dell’ANSA da Londra, cui spesso ci affidiamo per farci raccontare la Brexit ‘lato inglese’. La crescita tira il freno e diviene decrescita, tra incertezze e paure, mentre la May e il suo governo sono incapaci di sbloccare lo stallo politico.
La crudezza dei numeri – certificati oggi dall’Office for National Statistics (Ons) – lascia poco spazio alle interpretazioni: la crescita del Pil rallenta, come abbiamo già detto, all’1,4% nel 2018; e nell’ultimo trimestre non va oltre uno striminzito + 0,2% – addirittura con un arretramento dello 0,4 a dicembre -.
Sono dati – osserva Logroscino – che non dipendono tutti dalle incognite del divorzio da Bruxelles. Ma che di questo scenario certamente risentono. E, in un fenomeno tipo cane che si morde la coda, il fatto che la Brexit arrivi a economia debole rischia di rafforzarne l’impatto negativo. Si può pure dire, come fa Downing Street, che “l’economia del Regno Unito continua comunque a crescere e resta forte nei suoi fondamentali”. La sterlina cede ancora terreno su euro e dollaro.
Rob Kent-Smith, capo analista dell’Ons, evidenzia “il calo registrato negli ultimi tre mesi, in specie nel settore manifatturiero dell’auto e dell’acciaio, nonché la contrazione nell’edilizia”. L’incubo è quello d’un taglio netto, di una Brexit senz’accordo. Un epilogo potenzialmente catastrofico di qua dalla Manica, ma foriero di guai anche altrove: “Qui sta – nota Logroscino – una delle poche leve residue in mano al governo di Sua Maestà”. Hanno timori la vicina Irlanda, in primo luogo, ma pure altri Paesi esposti nell’interscambio con Londra: per esempio, la Germania, dove stando a un team di ricercatori di Halle in caso di ‘no deal’ sarebbero minacciati fino a 100.000 posti di lavoro soltanto in terra tedesca (e fino a 600.000 nel mondo).
“Per allontanare lo spettro – scrive Loigroscino -, la May pare avere solo due possibilità. La prima è quella di trovare una via d’uscita dal backstop, il contestato meccanismo vincolante di salvaguardia del confine aperto Eire – Ulster, come le ha dato mandato di fare la sua maggioranza Tory-Dup, dopo la sonora bocciatura parlamentare del primo tentativo di ratifica dell’intesa raggiunta con l’Ue a novembre”. Ma da quest’orecchio i 27 non ci sentono, mantenendo il no a rimettere in discussione la sostanza dell’accordo.
“La seconda opzione è invece cercare una soluzione di compromesso – trasversale – con il leader dell’opposizione Corbyn, per una Brexit più soft, come lo stesso Barnier suggerisce a mezza bocca di valutare … Su quest’ultimo fronte la premier conservatrice ha scritto una lettera al ‘caro Jeremy’, in cui pare aprire spiragli di dialogo su un testo condiviso tale da evitare ad un tempo il ‘no deal’ e ogni idea di referendum bis, mantenendo però fermo il veto su una delle proposte alternative cruciali di Corbyn, quella d’un accordo rivisto per garantire la permanenza dell’intero Regno Unito nell’unione doganale”.
Sarebbe una svolta che costringerebbe la May a rinunciare a una delle sue ultime linee rosse, mettendo da parte la promessa di trattati di libero scambio con Paesi terzi e spaccando definitivamente il suo partito. Come confermano i moniti dei falchi brexiteers alla Boris Johnson, ma anche i messaggi interni al governo dello sgomitante titolare della Difesa, Gavin Williamson, che a una Brexit senza compromessi inneggia come a una “grande chance” per i sogni di gloria rinnovati della potenza insulare. Già evocando l’invio della portaerei Queen Elizabeth nel Pacifico per future dimostrazioni di “hard power” contro le “ambizioni risorgenti” di Russia e Cina. C’è sempre qualcuno più megalomane e più stupido di Trump, a questo Mondo.