Prove di dialogo abortite in Venezuela tra il presidente la cui elezioni è contestata, Nicolas Maduro, e il presidente auto-proclamato, Juan Guaidò. Maduro, da poco insediatosi per un secondo mandato, dopo un voto non democratico per larga parte della comunità internazionale, prospetta un colloquio a Guaidò; e Messico ed Uruguay si offrono di ospitare l’incontro, di tentare una mediazione. Ma Guaidò, il presidente del Parlamento che mercoledì ha assunto i poteri esecutivi, fa sapere che non intende partecipare a “dialoghi inutili e dilatori”: lui è disposto a negoziare solo tre punti, la “fine dell’usurpazione”, cioè della presidenza di Maduro, e la creazioni di un governo di transizione, che porti al più presto a elezioni democratiche. E a chi lo accusa di ‘colpo di Stato’, risponde: “Se mi arrestano, quello sì è un golpe”.
Elezioni democratiche le chiede anche l’Unione europea, seppure con toni diversi da Paese a Paese, mentre Donald Trump mette tutto il peso degli Stati Uniti dietro a Guaidò, sostenuto da larga parte dei Paesi dell’Organizzazione degli Stati latino-americani. Invece la Russia e la Cina sono i grandi ‘garanti internazionali’ di Maduro. Che di Guaidò dice: “Lo conosco, è un agente dei gringos, che lo hanno formato e lo hanno fatto entrare in politica… Eseguirà i loro ordini…”.
Nel Paese, la tensione resta altissima: proteste, incidenti, scontri hanno già fatto decine di vittime: un bilancio, provvisorio, stilato da organizzazioni non governative, contava 26 morti all’alba di ieri; la giornata di venerdì sarebbe poi stata meno cruenta. C’è l’impressione che il bilancio avrebbe potuto essere più tragico, la deriva verso la guerra civile più netta. Invece, i militari e gli apparati dello Stato paiono essere fedeli al regime di Maduro, ‘chavista’ e ‘bolivarista’ nel segno dell’eredità di sinistra di Hugo Chavez e della tradizione latino-americana indipendentista e nazionalista. Con Maduro, c’è pure l’apparato giudiziario, alla cui indipendenza non c’è da prestare troppo credito.
Guaidò si muove nel Paese, incontra folle di sostenitori, propone una mobilitazione continua, dà appuntamento oggi alla gente per nuove manifestazioni e domani ai militari: promette un’amnistia “a coloro che passeranno dalla parte della Costituzione”, anche a Maduro. Che, dal canto suo, ribadisce di essere “l’unico presidente” di un Venezuela che, di fatto, ne ha due, senza che nessuno riesca a governare un’economia in dissesto con tassi d’inflazione inauditi.
La comunità internazionale si muove in ordine sparso. Da Washington, John Bolton, il consigliere poer la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, afferma che i beni Usa in Venezuela sono affidati alla tutela di Guaidò, che starebbe per rinnovare – con quale effetto e con quale autorità, resta da vedere, i vertici dell’industria petrolifera pubblica venezuelana -. E il Brasile offre a Maduro “un corridoio di fuga”.
Nell’Unione europea, dopo la fuga in avanti ‘pro Guaidò’ della Francia, Spagna e Portogallo, che, con l’Italia – però quasi assente -, sono i Paesi più attenti all’America latina, provano a suggerire una linea comune: chiedono a Maduro d’indire in Venezuela libere elezioni “entro una settimana”, pena il riconoscimento di Guaidò. Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera europea, si ferma un passo prima: chiede un voto “libero e credibile”, ma non indica scadenze ed evita di evocare il riconoscimento di Guaidò. Maduro non apprezza la mossa di Madrid: “Spagnoli insolenti – dice -, se vogliono se ne vadano”.
Da Panama, dove Papa Francesco partecipa alla Giornata mondiale della Gioventù, la Chiesa si schiera per il cambiamento: “Il popolo lo chiede e noi con loro”, dice il vescovo Mariano Parra. L’Onu dovrebbe pronunciarsi questa mattina: una riunione del Consiglio di Sicurezza è convocata al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti saranno rappresentati dal segretario di Stato Mike Pompeo. Difficile, però, prevedere un’iniziativa delle Nazioni Unite capace di sbloccare la situazione: incombono i rischi di veti incrociati russo e americano.
L’incertezza e la pericolosità della situazione trovano una conferma nella partenza da Caracas, prima dei tempi dettati dal presidente Maduro, di parte del personale diplomatico Usa: “E’ normale, in queste condizioni, accelerare l’uscita del personale non essenziale”, spiega un portavoce dell’Ambasciata.