Una giustificazione umanitaria (e di sicurezza) per una risposta che non ha nulla di umanitario a una situazione che non mette in pericolo la sicurezza nazionale: la presenza sparuta di richiedenti asilo e migranti al confine degli Stati Uniti. Come John Kennedy nei giorni della ‘crisi dei missili’ a Cuba, come George W. Bush l’11 Settembre 2001, Donald Trump sceglie lo strumento più emozionale, il messaggio alla Nazione dallo Studio Ovale su tutte le reti televisive, per lanciare un ultimatum per il muro lungo la frontiera tra Texas e Messico. Il presidente non invoca lo stato d’urgenza, che gli darebbe poteri speciali, ma che appare poco giustificabile alla luce dei fatti, ma insiste: senza soldi per il muro in bilancio – 5,7 miliardi di dollari -, l’Amministrazione federale resta chiusa, almeno per i servizi non essenziali.
La replica dell’opposizione democratica, più agguerrita e combattiva, adesso che controlla un ramo del Congresso, va in onda subito dopo: “Trump la smetta di tenere in ostaggio gli americani” e “riapra l’Amministrazione subito”, dicono Nancy Pelosi, speaker della Camera, e Chuck Schumer, capo della minoranza al Senato.
Il secondo più lungo shutdown nella storia dell’Unione
E’ già il secondo più lungo shutdown nella storia degli Stati Uniti. E non sarà il discorso di Trump, nove minuti ad alta intensità, a porgli fine. Per una netta maggioranza degli americani, non c’è crisi alla frontiera: al massimo “un problema”, dice un sondaggio. Ma il presidente va sul confine e incontra “quanti sono in prima linea sul fronte della sicurezza nazionale e della crisi umanitaria”.
Trump parla di negoziati con il Congresso “produttivi”, ma tiene il punto nel braccio di ferro con deputati e senatori: se non gli danno i soldi per il muro, di mattoni o d’acciaio che sia, lui potrebbe proclamare lo stato d’urgenza e procurarsi i fondi sottraendoli ad altri capitoli di spesa federale – mossa che esperti di diritto giudicano illegale -.
L’ultima trovata, almeno per ora, perché ce n’è una al giorno, è proprio quella di costruire il muro in acciaio: così, tanto per strizzare l’occhio ai siderurgici del MidWest e dei Grandi Laghi, che lo portarono nel 2016 alla Casa Bianca con i loro voti.
Naturalmente, nei discorsi e nei tweet di Trump su questo tema non mancano le bugie, una costante di ogni suo intervento: dice, ad esempio, che i suoi predecessori alla Casa Bianca hanno ammesso che avrebbero dovuto costruirlo loro quel muro. Ma tutti i presidenti ancora in vita, Jimmy Carter, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, smentiscono.
Intanto, i democratici, che ora sono in maggioranza alla Camera – dal 3 gennaio il Congresso è quello uscito dal voto di midterm del 6 novembre -, provano ad approvare stanziamenti che tengano aperti alcuni settori della pubblica amministrazione, a cominciare dagli uffici del tesoro che versano ai cittadini i rimborsi sulle tasse in eccesso. Lo shutdown comincia a fare sentire i suoi effetti, non solo sugli 800 mila dipendenti federali che sono senza paga, che lavorino o no.
La Pelosi e le tattiche politiche
Nancy Pelosi, tornata a essere speaker della Camera dopo sette anni, denuncia la minaccia di Trump di andare avanti con lo shutdown fin che il Congresso non gli finanzierà il muro: “C’è un problema, se il presidente è contro il governo e se non gli importa che le esigenze della gente non siano soddisfatte o che i dipendenti pubblici non siano pagati”.
Comincia così, con una sfida tra i democratici e il magnate la nuova legislatura del Congresso Usa, il più diverso di sempre per genere, etnia, religione e il più femminile che mai. Trump cerca d’evitare la trappole dei democratici spostando la palla: un gioco che sa fare bene.
Dunque, accusa i democratici di minacciarlo d’impeachment sul Russiagate perché non possono batterlo nel 2020 e fa girare la voce di pensare a Jim Webb, 72 anni, ex senatore democratico e ministro della Marina nell’Amministrazione Reagan, come successore di James Mattis alla guida del Pentagono. Ma prosegue la ‘fuga degli insofferenti’ dalla squadra di Trump, che riunisce l’ultimo quadrato dei suoi fedelissimi a Camp David per iniziare a lavorare sul discorso sullo stato dell’Unione che farà il 29 gennaio.
Le dimissioni, o l’allontanamento – le versioni sono contrastanti – di Kevin Sweeney, per due anni capo di gabinetto di Mattis, non destano sorpresa: “Ho deciso che è il momento di tornare al settore privato”, dice Sweeney, contrammiraglio, a riposo dal 2014, contrario, come molti generali, al ritiro delle truppe dalla Siria e – parziale – dall’Afghanistan.
Uno sguardo sul Mondo tra turbolenze e negoziati
La politica statunitense sembra incartarsi, in giorni in cui temi interni e internazionali s’intrecciano: a Pechino, si svolge il primo round dei negoziati tra Cina e Usa per sventare la ‘guerra dei dazi’; ed emissari della Casa Bianca viaggiano in Medio Oriente per spiegare le scelte più recenti dell’Amministrazione americana.
Il segretario di Stato Mike Pompeo fa una lunga missione. Il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton va ad Ankara e in Israele a spiegare che quello che ha detto Trump non è proprio vero, che gli Usa non se ne andranno dalla Siria da un giorno all’altro, che ci vorrà tempo, quattro mesi almeno. E chiede ai turchi di non profittare del ritiro per massacrare i curdi.
Si prepara, inoltre, un secondo Vertice tra il presidente e il leader nord-coreano Kim Jong-Un: proseguendo nel turismo della diplomazia dell’apparenza, i due, dopo Singapore, potrebbero vedersi in Vietnam, ad Hanoi.
Rompe un po’ le uova nel paniere dell’ottimismo del magnate il presidente della Federal Reserve Jerome Powell: Kudlow giudica “utile” un incontro “franco” tra Trump e Powell, ma il presidente della Fed dice che nessun contatto è previsto e che non intende dimettersi, neppure se Trump, che l’ha nominato appena dieci mesi or sono, glielo chiedesse. Il presidente rimprovera al banchiere l’aumento dei tassi d’interesse, che a suo dire raffredda la crescita.
Sognando Usa 2020, la Warren già in campo
Per i democratici, alla Camera è un momento d’euforia. In Senato, per i repubblicani, non è tutto rose e fiori: c’è una fronda contro Trump, guidata – non è una novità – dal neo-senatore dello Utah, e candidato 2012 alla Casa Bianca, Mitt Romney, che lo giudica “inadeguato”; e ce n’è una contro il leader della maggioranza Mitch McConnell, sotto pressione per arrivare a un compromesso (c’è timore che il protrarsi dello shutdown intacchi la credibilità dell’Amministrazione, già fragile). Cory Gardner è il primo senatore repubblicano a chiedere la fine dello shutdown, con o senza soldi per il muro.
I candidati alla nomination democratica per Usa 2020 cominciano a schierarsi ai nastri di partenza: la senatrice del Massachusetts Elisabeth Warren, un’icona dell’America liberal, scende in campo, dopo il deputato del New Jersey John Delaney, uno sconosciuto probabilmente destinato a restare tale, che ha dichiarato le sue ambizioni presidenziali già il 28 luglio 2017.
La Warren, che nel 2016 non scese in lizza per non scontrarsi con Hillary Clinton, vuole ora creare un comitato esplorativo delle sue chances, una mossa che di solito precede l’annuncio vero e proprio di una candidatura. La senatrice, che Wall Street vede come il fumo negli occhi, è la prima a muoversi tra i principali candidati potenziali democratici, un gruppo molto numeroso e ancora magmatico, dove ci sono dinosauri della politica come Joe Biden, la stessa Clinton, Bernie Sanders e volti nuovi come Kamala Harris, Cory Booker e Beto O’Rourke – ma sono elenchi non esaustivi -, senza contare i miliardari politicamente ermafroditi alla Michael Bloomberg.