L’ultima trovata, almeno per il momento, perché ce n’è una al giorno, è quella di costruire il muro al confine con il Messico in acciaio: così, tanto per strizzare l’occhio ai siderurgici del MidWest e dei Grandi Laghi, che con i loro voti lo hanno portato alla Casa Bianca nel 2016. Il presidente Usa Donald Trump tiene il punto del muro, nel braccio di ferro con il Congresso per il finanziamento delle installazioni di sicurezza lungo la frontiera: giovedì, visiterà il confine lungo il Rio Grande e vedrà “coloro che sono in prima linea sul fronte della sicurezza nazionale e della crisi umanitaria”.
Lo shutdown, cioè la serrata dell’Amministrazione federale, entra nella terza settimana, la prima d’attività al 100%, dopo quelle di Natale e di Capodanno. Nancy Pelosi, neo-speaker della Camera, leader democratica, commenta così la minaccia di Trump di andare avanti con lo shutdown fin che il Congresso non gli finanzierà il muro: “Se il presidente degli Stati Uniti è contro il governo e se non gli importa se le esigenze della gente non sono soddisfatte o che i dipendenti pubblici non siano pagati, allora abbiamo un problema e dobbiamo portarlo davanti al popolo americano”.
Trump parla di negoziati con il Congresso “produttivi”, ma ripete che, se i deputati e i senatori non gli danno i cinque miliardi per il muro, di mattoni o d’acciaio che sia, lui potrebbe proclamare l’emergenza nazionale e procurarsi i fondi sottraendoli ad altri capitoli di spesa federale – mossa che esperti di diritto giudicano illegale -.
La politica statunitense sembra incartarsi, in una giornata in cui i temi s’intrecciano: a Pechino, partono i negoziati tra Cina e Usa per sventare la ‘guerra dei dazi’; ed emissari della Casa Bianca viaggiano in Medio Oriente per spiegare le scelte più recenti dell’Amministrazione americana. E intanto prosegue la fuga degli insofferenti dalla squadra di Trump, che riunisce l’ultimo quadrato dei suoi fedelissimi a Camp David per incominciare a preparare il discorso sullo stato dell’Unione che farà il 29 gennaio.
I colloqui di Pechino sono il primo round tra le due parti dopo la tregua di 90 giorni proclamata dai presidenti Trump e Xi Jinping il 1° dicembre, dopo il G20 di Buenos Aires. La delegazione Usa, guidata dal vice-rappresentante sul commercio Jeffrey D. Gerrish, discute con quella cinese sul riequilibrio dell’interscambio e sulle tensioni sul trasferimento di tecnologie e l’accesso ai mercati.
Nell’imminenza dei colloqui sia Trump che Xi hanno lanciato segnali positivi, peraltro apprezzati dai mercati azionari: il magnate ha parlato di “grandi progessi” e della volontà di Pechino di trovare un accordo, mentre Xi ha citato la “collaborazione” tra i due Paesi come unica opzione possibile.
Sui fronti internazionali, Washington prepara un secondo incontro tra Trump e Kim Jong-Un, proseguendo nel turismo della diplomazia dell’apparenza – dopo Singapore, i due potrebbero vedersi in Vietnam, ad Hanoi -. Ma il presidente deve fare i conti con la fronda interna, forte, soprattutto, fra i militari, che non digeriscono le decisioni di ritiro, non concordate con il Pentagono, dalla Siria e dall’Afghanistan.
Le dimissioni, o l’allontanamento – le versioni sono contrastanti – di Kevin Sweeney, che è stato per due anni capo di gabinetto del segretario alla Difesa uscente James Mattis, non hanno creato sorpresa a Washington: “Ho deciso che è il momento di tornare al settore privato”. Sweeney, contrammiraglio, a riposo dal 2014, era contrario, come molti generali, al ritiro delle truppe. Se ne va mentre il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton va ad Ankara a spiegare che quello che ha detto Trump non è vero, che gli Usa non se ne vanno dalla Siria da un giorno all’altro, che ci vorrà tempo, almeno quattro mesi. E a chiedere che i turchi non ne profittino per massacrare i curdi.