Fu la domanda di un giornalista dell’ANSA a fare cadere il Muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989: Riccardo Ehrman, corrispondente da Berlino Est, chiese a Gunter Schabowsky, portavoce del governo della Rdt, se sarebbe stata resa ai cittadini della Germania orientale la libertà di viaggio. Un po’ involuta, la risposta fece comunque capire che le frontiere erano ormai aperte e che il Muro era simbolicamente caduto. Quella sera, Ehrman fu portato in trionfo alla stazione di Friedrichstrasse, dov’era andato a verificare se il transito era davvero consentito – lo sarebbe stato la mattina dopo -. Il briefing di Schabowsky era stato dato in diretta televisiva, all’insaputa degli stessi giornalisti.
La caduta del Muro fu l’atto culminante dello sgretolamento del blocco comunista e della stessa Unione sovietica: l’immagine che resta nella memoria, con l’ultimo ammainabandiera del vessillo dell’Urss il 25 dicembre 1991. Un processo cominciato nel 1985, con l’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbaciov, la glasnost e la perestroika, e la fine della Guerra Fredda, e acceleratosi nell’estate del 1989 con le pressioni all’emigrazione dai Paesi dell’Est.
Tutto sfociò nella caduta del Muro, che venne metaforicamente giù in una notte dì felicità, dopo essere materialmente apparso in una notte torva del 1961, il 13 agosto. Si spalancava così la porta alla riunificazione della Germania, che sarebbe stata cosa fatta di lì a meno di un anno, alla nascita dell’Unione europea (e in prospettiva dell’euro), all’allargamento a Est dell’Ue: fermenti e speranze tutti coagulati in una notte d’euforia.