Il pranzo che Donald Trump ha condiviso, a Santo Stefano, con i militari americani di stanza in Iraq ricorda il tacchino mangiato da George Bush con i soldati Usa nel giorno del Ringraziamento 2003: oggi come allora, volo segreto e massimo riserbo, perché, 15 anni dopo l’invasione, quella meta resta insicura per un presidente americano.
La differenza è che, allora, il premier iracheno Nuri al-Maliki, neppure avvertito della visita, fece buon viso a cattivo gioco. Questa volta, invece, il premier Adel Abdul Mahdi, avvertito – pare – appena due ore prima dell’atterraggio dell’AirForce One sulla base di al-Asad, s’è rifiutato d’incontrare l’ospite che la fa da padrone.
Per Trump, che era accompagnato dalla first lady Melania, è stata la prima visita a truppe in un’area di conflitto ed è stata l’occasione per difendere alcune scelte controverse della sua Amministrazione in politica estera, maturate nell’ultimo scorcio di questo 2018.
Dopo la sconfitta, l’iper-attivismo – La misura della sconfitta del presidente e dei repubblicani nelle elezioni di midterm, il 6 novembre, è stata chiara solo a conteggi ultimati: quello che a caldo pareva un pareggio s’è rivelato una batosta. Alla Camera, i democratici hanno conquistato 40 seggi ai repubblicani; nel voto popolare, con quasi nove milioni di suffragi in più, hanno avuto la vittoria più netta mai registrata.
Il risultato ha innescato una nuova fase di attivismo decisionista del magnate presidente, che è però andato a sbattere contro un doppio muro: quello anti-migranti che lui vuole costruire al confine con il Messico; e quello del Congresso, che non gli dà i soldi per farlo. Risultato, lo shutdown, cioè la serrata dei servizi non essenziali dell’Amministrazione federale: un regalo di Natale avvelenato ai cittadini, anche se Trump su Twitter fa spallucce, “tanto – dice – a non prendere lo stipendio sono soprattutto elettori democratici”, perché, secondo un sondaggio, il 44% dei dipendenti federali vota democratico, il 40% repubblicano.
L’abbandono del Medio Oriente e la denunce degli accordi nucleari – Nella scia del midterm, Trump, che in corso d’anno aveva già denunciato l’accordo sul nucleare con l’Iran, nonostante l’avviso contrario dei suoi alleati e dei suoi generali, ha annunciato l’intenzione di uscire dal patto con la Russia sugli Inf, gli euromissili, di ritirare tutte le truppe di stanza in Siria e di dimezzare quelle di stanza in Afghanistan.
Tutti passi decisi informando, ma non consultando, staff, alleati e interlocutori. Il principio di fondo “gli Usa non vogliono essere i poliziotti del Mondo” è largamente condivisibile e condiviso, ma attuarlo con decisioni unilaterali rischia d’essere destabilizzante e controproducente, aumentando rischi e instabilità.
Risultati: le dimissioni del segretario alla Difesa, generale James Mattis, dopo quelle del capo staff alla Casa Bianca John Kelly; le riserve degli europei; l’invito del presidente russo Vladimir Putin a non sottovalutare il rischio di un conflitto nucleare (corredato dal test di una nuova arma nucleare a “planata ipersonica” Avangard). Lanciato da un missile vettore intercontinentale, l’ordigno russo può essere dotato di una testata atomica, planare come un aliante a grande altitudine, scivolando sugli strati più densi dell’atmosfera a Mach 20, e colpire obiettivi lontani senza essere intercettato dai sistemi Nato
Russia, Cina, Corea, i vertici bufala – Il 2018 è stato l’anno dei ‘Vertici bufala’: “storico” quello a Singapore il 12 giugno con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, dopo il quale non è successo assolutamente nulla: Kim ha incassato una legittimazione internazionale, Trump qualche promessa; la Corea non è meno armata di prima, ma è meno querula.
Quello di Helsinki con Putin il 16 luglio è stato infruttuoso. Quello col presidente cinese Xi Jinping è stato paradossale: i due, incontratisi a Buenos Aires il 1° dicembre, dopo il G20, hanno dichiarato una tregua nella ‘guerra dei dazi’ tra Usa e Cina, di fatto subito compromessa dall’arresto in Canada di Meng Wanzhou una boss del colosso informatico Huawei, figlia del fondatore dell’azienda, presa a Vancouver perché avrebbe violato le sanzioni americane all’Iran – la magistratura canadese non s’è però ancora pronunciata sulla richiesta d’estradizione -.
Migranti: muro e bambini – I migranti sono il rifugio di Trump, che va a parare lì quando si sente alle strette. Ma anche lì non tutto fila liscio: la carovana di richiedenti asilo dall’America centrale è stata il tema centrale della campagna elettorale, ma la separazione dei minori dai genitori all’entrata nell’Unione, con la morte in detenzione di almeno due bambini, e l’attuazione del ‘muslim ban’ restano fortemente controverse. Il presidente parla di “disperato bisogno di sicurezza e del muro”, per “impedire che la droga e membri di gang criminali entrino nel nostro Paese”, ma gli americani appaiono scettici.
Russiagate, il pericolo è il suo mestiere – Esposto dalle defezioni di avvocati e collaboratori, Trump rafforza le difese anti-Russiagate: caccia il segretario alla Giustizia Jeff Sessions, dopo essere riuscito a blindare in senso conservatore la Corte Suprema con il giudice Brett Kavanaugh. Ma il procuratore speciale Robert Mueller potrà giocare le sue carte nel 2019, quando la Camera, democratica, potrebbe fargli da sponda nel portare all’impeachment l’inchiesta sui magheggi russi di Usa 2016 pro Trump e anti Hillary.
Babbo Natale ‘tradito’ – Tra scontri politici e beghe familiari, shutdown e indagini, borse inquiete e riconferme – forzate – del presidente Fed Jerome Powell, Trump chiude il suo 2018 ‘tradendo’ Babbo Natale e deludendo Coleman, sette anni, che gli telefona la notte di Natale per chiedergli dove sia la slitta con i doni – un servizio del Norad affidato a telefonisti d’eccezione, il presidente e la ‘first lady’-: “Alla tua età ci credi ancora?”. Coleman resta interdetto. Poi, la mattina, trova i doni sotto l’albero e non ha più dubbi: quel signore al telefono parlava a vanvera.