Altro che tregua commerciale Usa-Cina, 90 giorni senza atti ostili per discutere e negoziare, sanciti dal bilaterale, a margine del G20 argentino, tra i presidenti Usa Donald Trump e cinese Xi Jinping e twittati da Trump con il gran pavese dei suoi successi memorabili. Mentre i due leader parlavano, veniva arrestata a Vancouver, in Canada, su esplicita richiesta degli Stati Uniti, Meng Wanzhou, chief financial officer di Huawei, il colosso delle telecomunicazioni cinese, ma soprattutto la figlia del fondatore del gruppo, Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’Esercito di Liberazione popolare cinese.
La tempistica degli eventi incerta, su fusi orari diversi, rende quasi impossibile, per il momento, darne una spiegazione logica, perché l’arresto di Meng era già avvenuto, o stata avvenendo, mentre Trump e Xi s’incontravano. E anche se la notizia è filtrata solo ieri, grazie al quotidiano canadese The Globe and Mail, è improbabile che i due leader non ne siano stati informati in tempo reale.
La portata dell’arresto e l’intreccio degli eventi hanno sconcertato le borse di tutto il Mondo: cadute quasi libere dall’Asia all’America, passando per l’Europa – Milano la peggiore nell’Unione -.
Ora, gli Usa vogliono che il Canada estradi loro Meng, sospettata di violazioni delle sanzioni contro l’Iran, sanzioni reintrodotte di recente dall’Amministrazione Trump, senza tenere conto del parere d’alleati e partner. Pure questa è una matassa di elementi difficile da dipanare: gli Stati Uniti contestano a una cittadina cinese di avere violato una loro legge facendo affari con un Paese terzo e la fanno arrestare in un altro Paese terzo. Di che rendere insicuri dei propri movimenti uomini d’affari non solo cinesi, ma europei o russi: gente che ha avuto e magari ha tuttora contatti e contratti con l’Iran, nel pieno rispetto delle proprie leggi nazionali e del diritto internazionale, ma non delle disposizioni statunitensi.
L’arresto della Meng è stato confermato a The Globe and Mail dal portavoce del Ministero della Giustizia canadese, Ian McLeod: la donna è ora in attesa dell’udienza, che dovrebbe svolgersi oggi. Appena reso pubblico, l’arresto è diventato un caso diplomatico: l’ambasciata cinese a Ottawa ha inoltrato una protesta formale nei confronti di Canada e Usa, negando che la Meng “abbia violato leggi statunitensi o canadesi” e chiedendo la liberazione della Cfo di Huawei.
Dando un segno tangibile dell’irritazione cinese, l’ambasciatore Lu Shauye ha annullato in extremis e senza spiegazioni un’audizione in programma ieri davanti alla commissione Esteri della Camera, uno dei rami del parlamento di Ottawa. La Huawei ha diffuso una nota dai toni moderati: definisce “non specificate” le accuse nei confronti della sua dirigente e si dice non al corrente “di alcun atto illecito commesso dalla signora Meng”, confidando che “i sistemi legali di Canada e Usa raggiungano una giusta definizione” del caso.
Fin dall’aprile scorso, il Wall Street Journal aveva scritto che il gruppo cinese, il cui valore stimato è di cento miliardi di dollari, era sotto osservazione da parte del Dipartimento della Giustizia Usa per possibili violazioni delle sanzioni anti-Iran, successivamente ulteriormente inasprite – i sospetti risalgono fin al 2010 -. Huawei è un perno della penetrazione mondiale industriale e tecnologica della Cina. Il presidente Xi è appena rientrato in patria da una serie di visite all’estero: a Lisbona, martedì, aveva assistito alla firma di 17 accordi di cooperazione bilaterale tra Cina e Portogallo, uno dei quali per lo sviluppo delle reti 5G nel Paese, in cooperazione tra Huawei e Altice.
L’attacco degli Usa al gigante delle telecomunicazioni cinese, fondato nel 1987, arriva pochi mesi dopo la chiusura della disputa che ha messo in difficoltà un altro gigante della tecnologia cinese, Zte. L’accusa era di avere violato le sanzioni nei confronti dell’Iran e della Corea del Nord: gli Usa l’hanno ritirata in cambio dell’impegno a pagare una multa da un miliardo di dollari ed a cambiare in toto la squadra dirigente.
Secondo il South China Morning Post, un giornale di Honk-Kong, la Meng, che come molti cinesi s’è scelta pure un nome occidentale, Sabrina, aveva tuttavia informato il suo staff che “Huawei potrebbe accettare il rischio di una temporanea non conformità” delle sue scelte con le norme fissate da altri Paesi. Le parole della Meng, che suonano come un’ammissione di parziale colpevolezza, almeno dal punto di vista degli Stati Uniti, sono contenute nella trascrizione, diramata ai dipendenti, di una comunicazione fatta il 29 ottobre.
La Meng avrebbe parlato di diversi quadri normativi, più o meno rigidi, distinguendoli in “linee rosse e gialle”. Le prime di Stati con regole chiare, da rispettare “rigorosamente” – la Cina non è citatam na può essere riconosciuta -. Le seconde sono invece più sfumate: Huawei, in questi casi, potrebbe muoversi sul filo normativo, mettendo in conto “costi” derivanti da eventuali violazioni.
Ma c’è pure una terza via intermedia, che può essere quella americana: uno scenario in cui le regole sono chiare ma la società è incapace di rispettarle dal punto di vista operativo. In tali casi, si può accettare il rischio di una temporanea non conformità”. Huawei avrebbe cioè messo in conto l’ipotesi di infrangere deliberatamente le norme dettate da altri Paesi.