Il giorno dopo, il presidente Donald Trump è su di giri: per lui e per il partito repubblicano, il voto di midterm è andato bene, “al di là di ogni previsione”, meglio di quanto non era andato a Clinton nel 1994 e ad Obama nel 2010 – Bush ne era uscito bene solo perché c’era stato l’11 Settembre -. Incontrando i giornalisti, il presidente apre al dialogo con i democratici, che sono ora maggioranza alla Camera, ma ammonisce la sua opposizione: “Possono giocare al gioco delle indagini, ma noi possiamo giocare meglio, io di solito sono più bravo”.
Barack Obama è invece più cauto, nonostante i democratici siano avanti di 9 punti sui repubblicani nel voto popolare. Un dato che il Washington Post mette in evidenza, perché è eccezionale, ma che, nella prospettiva presidenziale di Usa 2020, non suona garanzia: la distanza tra progressisti e conservatori è tutta scavata nelle miniere di voti democratiche del New England e della California.
“Il nostro lavoro ora va avanti – dice Obama -: il cambiamento non può venire da una sola elezione, ma questo è un punto di partenza … Spero si torni ai valori dell’onestà e del compromesso e che si guardi a un Paese non diviso dalle sue differenze, ma legato da un comune credo”. Parole che fanno magari fischiare le orecchie a Trump, che è il campione della divisione dell’America, ma che sono pure monito per i democratici, perché non affrontino la seconda metà del mandato presidenziale votati alla contrapposizione frontale e al muro contro muro.
Trump avrà a che fare con un Congresso spaccato, con una Camera che gli farà la guerra, che potrà rallentare l’iniziativa legislativa della Casa Bianca e che potrebbe progettare di avviare l’impeachment o di istituire commissioni d’inchieste su tutti i fronti di comportamento presidenziale discusso e discutibile, Russiagate – qui c’è la prospettiva d’impeachment -, conflitti d’interessi, elusioni fiscali, comportamenti personali. O che potrebbe invece cercare, o accettare, il dialogo.
Le parole a caldo, martedì sera, di Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera, e ieri di Trump lasciano presagire una fase di studio, dopo l’insediamento a gennaio del nuovo Congresso. Ma non bisogna probabilmente illudersi che il magnate presidente smetta di fare, nei prossimi due anni, quello che sa fare meglio e che, in fondo, non smette mai di fare: Trump, che a governare si diverte poco e a negoziare meno, è in una costante campagna elettorale.
La gestione dell’Amministrazione l’affiderà alla sua compagine che intende rinnovare in profondità, a partire dal segretario alla Giustizia James Sessions, su cui – dice – “decido in settimana” – in realtà, il ministro contestato lo anticipa, dimettendosi subito -. Qualcosa ai democratici dovrà concedere sui fronti interni ed economici, mentre il fatto di avere il Senato dalla sua – i nuovi senatori sono più ‘trumpiani’ che repubblicani – gli consente di muoversi senza grossi imbarazzi in politica estera.
Trump potrà pure cercare di trarre profitto dell’incertezza che serpeggia fra i democratici: non hanno un leader e neppure un candidato, anzi ne hanno troppi in pectore, addirittura decine, e tutti ancora privi di notorietà nazionale; e non hanno neppure una linea. Assecondare la polarizzazione, continuando a puntare su personalità ‘socialiste’, ‘liberal’, alternative, espressione delle minoranze, oppure cercare di tornare al centro, là dove, prima di Trump, si vincevano le elezioni?
Beto O’Rourke, sconfitto in Texas da Ted Cruz e probabilmente messo fuori gioco per il 2000, ha, sul centro, un’idea precisa: “Sulle strade del Texas, al centro ci sono solo gli armadilli morti”. Politicamente, O’Rourke trasforma in cadaveri i Clinton e pure Obama. Ma ai lati delle strade, anche nel Texas, crescono solo i papaveri, non i leader.