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Usa: midterm, il voto un referendum su Trump

Scritto per la Voce e il Temp uscito lo 01/11/2018 in data 04/11/2018

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In principio fu la Brexit: il 23 giugno 2016, il referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, che l’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump appoggiò vigorosamente, accese la miccia dell’esplosione di sovranismo e nazionalismo, populismo e xenofobia che di lì a poco avrebbe portato all’elezione di Trump a 45° presidente degli Stati Uniti e a tutta una serie di risultati elettorali inquietanti, in Italia, in Europa, fino all’elezione di un presidente brasiliano, Jair Messias Bolsonaro, un nostalgico della dittatura.

La fine potrebbe essere la Blexit, cioè la campagna per incoraggiare gli afro-americani (i black, appunto) ad abbandonare il partito democratico. Il movimento, lanciato nell’imminenza del voto di midterm, martedì 6 novembre, è guidato da Candace Owens, commentatrice ultraconservatrice nera, star dei social media e fan di Trump. A disegnare il logo è stato un altro transfuga della causa nera, il rapper Kanye West, anch’egli sostenitore del presidente, che lo ha ricevuto nello Studio Ovale. Tutto con il sostegno di Turning Point Usa, di cui la Owens dirige la comunicazione.

Nell’Unione, le ultime battute della campagna per le midterm elections sono state segnate dalla violenza di destra, razzista e anti-semita: dopo una scia di lettere bomba, fortunatamente inesplose, tra il 23 e il 25 ottobre, contro esponenti democratici e, più in generale, oppositori del presidente Trump, la strage di sabato 27 nella sinagoga di Pittsburgh; e ora l’esercito – 5200 uomini – schierato alla frontiera con il Messico per intercettare e bloccare una carovana di migranti e il progetto di cancellare dalla Costituzione lo ius soli. Senza contare le provocazioni di Trump sui fronti internazionali, fino alla denuncia del Trattato Inf sui cosiddetti euromissili, che espone l’Europa e il Mondo a un rilancio della corsa agli armamenti.

Il voto un referendum su Trump
La Blexit potrebbe risultare la provocazione di troppo: la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso d’un Paese raso colmo d’intolleranza e esacerbazione, il cui presidente è un ‘divisore in capo’ che aizza le tensioni, si proclama nazionalista e sdogana i suprematisti accomunando nella denuncia razzisti e anti-razzisti. Il voto di midterm “è un’elezione nazionale, un referendum su Trump”, afferma Lee Miringoff, direttore del Marist Institute for Public opinion che ha fatto un sondaggio per la Npr, la radio pubblica Usa. Due terzi degli elettori ritengono che il presidente sarà il fattore che più influenzerà il loro voto alle elezioni di metà mandato.

Gli episodi delle ultime due settimane fanno salire la tensione, che il presidente Trump teneva già alta del suo. Barack Obama, destinatario d’una lettera bomba come Bill e Hillary Clinton, incoraggia la gente ad andare a votare, perché “l’America è al bivio”. E Robert De Niro, anch’egli preso di mira dal ‘serial bomber’ Cesar Sayoc, dice: “Il voto è più potente delle bombe”. Il sindaco di New York Bill De Blasio e il governatore Andrew Cuomo invitano Trump ad “abbassare i toni”, a “non incoraggiare la violenza, l’odio, le divisioni e gli attacchi ai media”. Invece, il presidente torna ad accusare i giornali di seminare l’odio che lui diffonde.

Tra ordigni inesplosi, stragi anti-semite e fuochi d’artificio presidenziali, anti-migranti e anti-media, il rialzo della tensione s’accompagna – si direbbe – a un rialzo dell’interesse per le elezioni di midterm: quasi dieci milioni di americani hanno già votato, soprattutto – pare – repubblicani, là dove è possibile farlo in anticipo. Il New York Times è molto prudente nel valutare il fenomeno, ma cita il sindaco di Chicago, l’obamiano Emanuel Rahm, che s’attende “un’ondata democratica e una risacca repubblicana” – un auspicio più che una previsione -.

Le ultime battute della campagna elettorale
La campagna è aspra: candidati che s’insultano a New York, che si lanciano epiteti in Georgia, che spendono somme record per un seggio da governatore in Illinois. Trump è molto attivo, ma non tutti i candidati repubblicani apprezzano il suo appoggio: in Texas, a un suo comizio c’erano il senatore Ted Cruz, suo rivale per la nomination repubblicana, e il governatore Greg Abbott, ma il deputato John Culberson, eletto in un collegio di gente ricca e moderata, non s’è fatto vedere. E quando arriva a Pittsburgh, dopo la carneficina alla sinagoga ‘L’Albero della Vita’ il presidente non trova neppure il sindaco ad attenderlo.

In realtà, da settembre Trump sta moltiplicando sforzi e presenze per tirare la volata ai repubblicani e salvaguardarne la maggioranza alla Camera e al Senato: negli ultimi giorni utili, prevede di tenere almeno dieci comizi, di cui due nel fine settimana, venerdì in West Virginia e sabato in Florida.

Sull’altro fronte, pure Obama è molto attivo: sarà in Florida quasi in contemporanea al presidente, andrà a Miami per sostenere Andrew Gillum e Bill Nelson, rispettivamente candidati democratici governatore, mentre Trump farà campagna per i loro rivali repubblicani Ron DeSantis e Rick Scott, prima a Fort Myers e poi a Pensacola. La presenza in Florida di Obama e Trump nelle battute finali della campagna dimostra quanto sia aperta qui la battaglia: i sondaggi danno i due partiti quasi testa a testa.

La posta in gioco
Martedì 6 novembre, nel voto di midterm, i cittadini americani saranno chiamati a rinnovare tutta la Camera – 435 seggi: i deputati hanno mandati biennali – e un terzo del Senato – 33 seggi su 100: i senatori, invece, restano in carica sei anni -. Si vota pure per decine di governatori e assemblee statali e una gamma di referendum e consultazioni locali.

Ma l’esito della consultazione sarà soprattutto letto come un giudizio sulla prima metà del mandato di Donald Trump, in chiave 2020: entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, il magnate ha finora goduto della maggioranza sia alla Camera, dove i repubblicani hanno 235 seggi, sia al Senato, dove ne hanno 51. Nonostante ciò, a parte la riforma fiscale, Trump non è riuscito a realizzare altri punti cruciali della sua agenda elettorale interna, lo smantellamento dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Barack Obama – dove procede pezzo a pezzo – o la riforma delle politiche dell’immigrazione – pure qui, procede pezzo a pezzo, non riuscendo a ottenere dal Congresso il finanziamento del muro che vuole innalzare al confine con il Messico -; ed in almeno due occasioni è giunto ai ferri corti con deputati e senatori, con lo ‘shutdown’, la chiusura, delle Amministrazioni federali.

Riccardo Alcaro, americanista dell’Istituto Affari Internazionali, osserva: “Le previsioni indicano che i democratici riprenderanno il controllo della Camera”, mentre il Senato, dove pure i margini sono risicati, potrebbe restare repubblicano. Questo perché la stragrande maggioranza dei seggi in palio al Senato in questo midterm è già occupata da democratici. “non è però chiaro – prosegue Alcaro – se ciò condizionerà Trump, che ha un’inclinazione al conflitto e che potrebbe ricavare un’opportunità dalla disfatta. Gli alleati europei degli Stati Uniti, e chiunque altro, inclusi i cittadini americani, dovrebbero dunque prepararsi ad altri due anni difficili, preludio alla sfida presidenziale 2020”. Dove Trump, se non sarà azzoppato da un ‘impeachment’ per il Russiagate, sarà ancora candidato per i repubblicani, mentre i democratici devono ancora esprimere candidature convincenti (il voto del 6 novembre potrebbe accendere i riflettori su qualche senatore o governatore).

L’handicap democratico della valanga ‘liberal’ e ‘sanderista’
La polarizzazione della politica americana, esacerbata dal magnate presidente, diventa un handicap per i democratici. Infatti, dalle primarie democratiche per le midterm elections, sono usciti vincitori, a volte a sorpresa, numerosi candidati ‘liberal’ e/o ‘sanderisti’, cioè sostenitori nel 2016 del senatore del Vermont Bernie Sanders, un ‘socialista’, irriducibile antagonista di Hillary Clinton per la nomination democratica.

Fra di essi, giovani donne come Alexandria Ocasio-Cortez, 28 anni, di origini ispaniche, capace d’imporsi nelle primarie a New York su un deputato di provata esperienza come Joe Crowley; o Rashida Tlaib, che diventerà la prima donna musulmana mai eletta dal Congresso dopo avere vinto le primarie democratiche in un collegio ‘sicuro’ del Michigan – Rashida correrà praticamente senza avversari -, finora tenuto da John Conyers jr. Sia la Ocasio-Cortez che la Tlaib vengono dai ranghi dei Democratic Socialists of America, un’etichetta che galvanizza l’elettorato più progressista, ma che può anche preoccupare quello moderato e centrista e spaventare, e quindi mobilitare, quello conservatore e ‘trumpiano’, oltre che quello evangelico.

Fra i repubblicani, invece, troviamo in prima linea proprio i ‘trumpiani’, mentre escono di scena elementi di punta dei conservatori moderati come Paul Ryan, speaker della Camera, che non si ripresenta, dopo non avere mai mascherato la mancanza di feeling con il presidente. La tattica è polarizzare lo scontro e sperare di trarre profitto dallo spostamento a sinistra democratici, in un Paese dove la parola ‘socialista’ è sempre stata e resta uno ‘spauracchio’.

Tanto più che, accanto alle donne – quattro potrebbero conquistare come governatrici Stati finora sempre maschili -, emerge nelle liste di midterm un numero record di candidati Lgbt: reazione scontata al fatto che l’Amministrazione Trump e i singoli Stati stanno erodendo i diritti loro riconosciuti dall’Amministrazione Obama. Oltre 400 politici Lgbt sono in lizza e alcuni sbandierano esplicitamente i temi della sessualità, del genere e della razza, denunciando l’arretramento in atto sul fronte dei diritti civili.

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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